Lottiamo per esaurire una tensione; una tensione nutrita da quel bisogno che chiamiamo libertà. La contingenza, la nostra contingenza, ci ha portati a chiamare questa lotta anarchia. Già, per noi, l’anarchia non è la società futura, non è un fine nè un mezzo, essa è un metodo; uno fra i possibili ma l’unico possibile per come noi viviamo il presente. Nel momento in cui riuscissimo ad avvicinare i lembi della società, ad esaurire la tensione che sostiene la nostra lotta, potremmo considerarci vincitori. Un’insidia però ci aspetta nel momento della vittoria. Nell’illusione che senza anarchia non ci sia libertà, nell’illusione che la nostra anarchia sia l’Anarchia, potremmo cadere nell’errore di lottare per essa e non per la libertà. Ci accorgeremmo troppo tardi di essere diventati i nuovi padroni, i garanti dell’istituito.
L’anarchia non è cosa del futuro, ma del presente; non è fatta di rivendicazioni ma di vita.
Una vita che non attende il giorno della rivoluzione, o meglio che vede la rivoluzione come qualcosa in perenne movimento e aperta al cambiamento durante il suo percorso. Una concezione della rivoluzione come processo e non come evento. Vale a dire che la rivoluzione anarchica viene prevalentemente intesa in senso lato, cioè come radicale trasformazione sociale, e non in senso stretto, cioè come fenomeno insurrezionale. Il che non significa necessariamente che la transizione della società gerarchica alla società libertaria non possa o non debba implicare dei passaggi insurrezionali, ma che, anche per chi ritiene inevitabile il momento insurrezionale esso è per l’appunto, un momento, per quanto importante (soprattutto come rottura dell’immaginario sociale), di un mutamento complessivo culturale (nel senso antropologico del termine cultura) assai più ampio che avviene prima durante e dopo tale passaggio. I mezzi del mutamento sociale radicale devono essere coerenti con i suoi fini, perché il fine non giustifica i mezzi. A questo punto si apre una sfida: trovare la capacità di immettere il futuro nelle cose che si fanno nel presente. Immergere la realtà nel “sogno”. Sogni nuovi per un sogno antico: essere padroni della propria vita. Vale a dire togliere la rivoluzione dalla dimensione evento per immetterla nella dimensione quotidiana. I piccoli tanti gesti, comportamenti, fatti, le piccole tante realizzazioni che creano dimensione comunitaria. Tolta dalla sua visione eroica e taumaturgica la rivoluzione, diviene, allora, possibile.
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