La catastrofe della politica sta nel non aver capito questo salto d’epoca: nel non aver colto che, da un certo momento in poi, la necessità non è più dettata dalla storia ma dal consumo e dalla libertà, non risponde più agli assoluti rivoluzionari ma ai desideri del presente; e che il conflitto non è più strumento per creare nuove istituzioni e nuova società, non è più pilotato dalle ferree leggi del processo storico, ma dal connubio esplosivo di pratiche di libertà e culture del consumo che espellono la mediazione politica e trasformano il conflitto in scontro incondizionato, totalmente privo di norme e garanzie, come incondizionati e privi di norme e garanzie sono il consumo e la domanda di libertà. Si tratta comunque di lotte anarchiche che attaccano una forma e una tecnica di potere che vogliono destituire anzi distruggere, dunque, hanno come fine il controllo dei corpi e del territorio; sono dunque conflitti orizzontali per la libertà e il riconoscimento; poi, sono lotte «trasversali», vale a dire che non sono circoscritte a un solo paese; e, infine, «sono lotte immediate – come scrive Michel Foucault – per due ragioni. Attraverso queste lotte gli individui criticano le istanze di potere a loro più vicine, quelle che su di essi esercitano la loro azione. Gli individui non cercano il “nemico principale”, ma il nemico immediato». La politica si trasforma allora non più in attuazione di un programma ma in produzione di territorio e presidio di uno spazio sociale. La potenza e la forza della lotta deriva dal fatto che non si lotta contro delle astrazioni (il Capitale, lo Stato, una legge, l’inquinamento o la mafia ad esempio) ma contro la maniera concreta – localizzata – attraverso cui queste astrazioni governano delle vite, configurano degli spazi, diffondono degli affetti. La lotta non difende un territorio, ma lo fa esistere, lo costruisce, gli dà consistenza.
«Quello che unisce gli uomini non è la condivisione del pane ma la condivisione dei nemici» (Cornac McCarthy)
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