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lunedì 31 dicembre 2012

giovedì 27 dicembre 2012

L'UTOPIA CAPITALISTA


Secondo l'Utopia capitalista, il capitale contemporaneo - concentrato su scala mondiale  e dotato ormai di cervelli collettivi, identificati negli apparati statali e nei vertici tecno-burocratici - è in grado di dispiegare una propria strategia globale, fondata sulla cogestione e sul coinvolgimento dei dominati. La miseria e la brutalità evidenti, riservata alle parti del mondo non ancora toccate dal progresso tecnologico e ai ghetti interni dei “diversi”, sono esibite spettacolarmente come minaccia e ricatto, ma esclude all'interno del blocco capitalista avanzato. Rinunciando al colonialismo e alla guerra tra Stati nazionali, il capitale estende a tutti la partecipazione,  giungendo a sussumere l'interiorità stessa del popolo senza confine dei suoi schiavi.
Tutta la vita dei proletari, compreso il tempo libero dal lavoro, che in precedenza veniva semplicemente ignorato, diventa oggetto dello sfruttamento. Dal momento in cui il capitale riesce imporre compiutamente la socializzazione del credito - vendite a rate, mutui, cambiali etc. -, la compravendita della forza-lavoro conquista tutto lo spazio e tutto il tempo della sopravvivenza dei proletari: il salario serve per pagare la sopravvivenza dell'anno passato, acquistata a credito. Il proletariato si trasforma in medium dell'estrazione del plus valore nelle ore passate sul luogo di lavoro, mentre, per tutto il resto del tempo, le sue qualità, i suoi bisogni e desideri si trasformano in materia estrattiva. Il linguaggio della persuasione occulta diventa la coazione che trasforma tutti i bisogni umani in bisogni dell'apparato produttivo, capovolgendo la legge della domanda e dell'offerta. L'universo produttivo determina ogni momento della sopravvivenza del lavoratore-consumatore, agganciandolo alla catena merce-desiderio-sublimazione in ruoli e obblighi sociali. Nello stesso tempo, la scienza – accumulazione dei significati dell'esperienza di tutti – organizza lo spettacolo del regno delle macchine come regno dell'unica libertà possibile.

QUELLO CHE HAI Contropotere


E in un mondo senza fine
Senza un’ombra da dignità
E in un mondo senza essenza
In cui regna solo falsità
E in un mondo di miseria
Dove sopraffare è normalità
E in un mondo di catene
Dove manca solo, solo libertà
Il mio mondo sta morendo
Grida sete di libertà
Quello che hai non è solo una tua scelta!
Tutt’attorno è solo un sipario
Poche parole un’immagine perfetta
Nessun nemico troppo forte, nessun motivo per scappare
Quello che hai non è solo una tua scelta
Uno specchio frantumato
Una corsa che ti allontana
Nessun nemico troppo forte, nessun motivo per scappare
Suoni negli astri
Indomiti
Solchi in deviabili, specchi accecanti, riflessi di fiamme
Solo selvaggi in libertà
Quello che hai non è solo una tua scelta
Poche parole un’immagine perfetta
Non più filosofia, azione diretta
Suoni negli astri
Indomiti
Solchi in deviabili, specchi accecanti, riflessi di fiamme
Solo selvaggi in libertà


LA RIVOLUZIONE di Errico Malatesta


La rivoluzione è giudicata obbligatoria per il rapporto di forza esistente nella società. Le classi privilegiate non permetteranno di farsi spodestare dai loro privilegi, se non con un’azione violenta da parte dei subordinati, per cui noi crediamo che solo la rivoluzione violenta possa risolvere la questione sociale.
Poiché la rivoluzione non possiamo farla da soli, cioè non possiamo colle sole nostre forze attirare e spingere all’azione le grandi masse necessarie alla vittoria, e poiché anche aspettando un tempo illimitato le masse non potranno diventare anarchiche prima che la rivoluzione sia incominciata, e noi resteremo necessariamente una minoranza relativamente piccola fino al giorno in cui potremo cimentare le nostre idee nella pratica rivoluzionaria, negare il nostro concorso agli altri ed aspettare per agire di essere in grado di farlo da soli, sarebbe in pratica, e malgrado le parole grosse e i propositi radicali, un fare opera addormentatrice, ed impedire che si incominci colla scusa di volere con un salto arrivare di botto alla fine. Noi non vogliamo aspettare che le masse diventino anarchiche per fare la rivoluzione, tanto più che siamo convinti che esse non lo diventeranno mai se prima non si abbattono violentemente le istituzioni che le tengono in schiavitù. Credo che l’importante non sia il trionfo dei nostri piani, dei nostri progetti, delle nostre utopie, le quali del resto hanno bisogno della conferma dell’esperienza e possono essere dall’esperienza modificate, sviluppate ed adattate alle reali condizioni morali e materiali dell’epoca e del luogo. Ciò che più importa è che il popolo, gli uomini perdano gli istinti e le abitudini pecorili, che la millenaria schiavitù ha loro inspirate, ed apprendano a pensare ed agire liberamente. Ed è a questa grande opera di liberazione che gli anarchici debbono specialmente dedicarsi.
Insomma volontà, rivoluzione e libertà sono i tre momenti inseparabili di un unico processo, dove è chiaro che per arrivare all’ultimo termine bisogna partire dal primo dovendo passare per il secondo: senza volontà di fare la rivoluzione non vi è rottura rivoluzionaria, senza rottura rivoluzionaria non vi è libertà. 

giovedì 20 dicembre 2012

La società del dono


In un mondo sempre più artificiale, in cui l’umanità sembra ormai incapace di esprimere la sua volontà di vivere e di resistere a ciò che ne ostacola la felicità, urge una riscoperta dello spirito del dono per rovesciare la prospettiva di una sopravvivenza programmata per essere consumata contro natura. 
Il mostro dell’economia autonomizzata va urgentemente fermato e nessuno potrà farlo al nostro posto.
Al dogma della crescita economica comincia a opporsi il progetto di una decrescita piacevole e conviviale, tendente a ristabilire sul piano demografico, su quello dei consumi, su tutti i piani del vivente il predominio della qualità sulla quantità.
Sta a noi non ridurlo a un’ennesima morale di rinuncia. Non abbiamo niente da perdere se non una immensa insoddisfazione in una tragedia planetaria.
Abbiamo da esplorare la gioia di vivere al di fuori di qualsiasi sacrificio.
Non è una certezza, ma una scommessa, cui ogni istante siamo invitati a non rinunciare mai, che finalmente dalle ambiguità dell’apatia generale venga fuori una volontà di battersi per creare se stessi armonizzando la società col godimento di sé.
Niente ci impedirà di distinguere, all’ombra dei patiboli, delle prigioni, delle fabbriche, delle scuole, nella clandestinità delle città, la folla insolita di coloro che hanno vissuto e tentano di vivere in rottura con gli imperativi della sopravvivenza. Una tale folla è in ciascuno di noi. Basta sentirla al di sopra del vano gridio della morte.


IL CONSUMO COME IDENTITA' PERSONALE


L'inesauribile e inesorabile dispiegarsi della burocrazia amministrativa promuove la mercificazione totalizzante dell'esistente e genera cambiamenti antropologici profondi: configura la distribuzione geografica della popolazione, concentrandola nei centri industriali; aumenta i ritmi di produzione; inibisce prassi e formazioni sociali fondate sulla reciprocità, sul dono, sulla condivisione; annienta abilità secolari.  La raccolta di erbe e di legna, la coltivazione di un orto, la fermentazione casalinga del vino e la distillazione dei liquori, i saperi artigianali legati alla riparazione e al recupero e all'elaborazione di rimedi terapeutici naturali seguono una sorte analoga a quella della panificazione: diventano per buona parte delle persone semplicemente  impensabili. 
La logica del profitto è esponenziale: si nutre di aumento perenne della produzione e quindi delle vendite. La crescita dei consumi, alimentata ad arte richiede: primo, come abbiamo visto, l'estinzione della possibilità di soddisfare bisogni senza passare per il mercato; secondo, l'allargamento degli ambiti che vengono mercificati, sottraendoli dal controllo pubblico, e l'applicazione della logica mercantile a beni che non erano mai stati concettualizzati come merci (ad esempio, brevetto dei codici genetici); terzo, un continuo ricambio dei prodotti che devono, dopo l'acquisto, risultare velocemente inadeguati, vetusti, superati; quarto, la capacità di alimentare il senso di inadeguatezza, e quindi il desiderio, illudendo il consumatore che il mercato offra la soluzione; quinto, la frammentazione delle reti sociali e la promozione dell'individualismo, in modo da generare consumatori singoli, ognuno potenziale acquirente, e così inibire l'acquisto collettivo. Il ricorso al mercato, per pressoché ogni esigenza, viene reso indispensabile.
Il consumo sostituisce il lavoro come fonte  primaria di identità personale, rafforzando la sensazione  che nell'acquisto si possa sviluppare una specifica dimensione soggettiva legata ad un possesso individuale.

Tesi per la liberazione dal lavoro


1) L'ideologia del lavoro è lo stratagemma con cui la società repressiva riesce a ritardare il trapasso generalizzato già ora possibile ad una società senza classi e libera dalla schiavitù del lavoro. 
2) Il mercato mondiale nella sua ultima fase: lo scambio dei prodotti materiali sussiste solo come forma economica in via di superamento; la forma più evoluta ed ormai realizzata su scala planetaria è lo scambio di merci ideologiche. 
3) Le ideologie, fondamento dell'attuale ricchezza delle nazioni, sono le merci nella loro moderna versione: il loro valore è dato dal tempo di consenso che riescono a garantire. Esse sono la forma in cui si manifesta il capitale ed è attraverso esse che si esercita il potere. 
4) L'ideologia scambiata tra gli stati, quelli comunisti non esclusi, viene poi distribuita al minuto al proletariato per essere consumata. Viene imposta sotto forma di legge naturale: il lavoro come maledizione continua e la produzione come necessità ineluttabile. 
5) La logica del lavoro contiene però le condizioni per il suo totale superamento. Il capitale potrebbe oggi ridurre il tempo di lavoro della metà: le forze sedicenti rivoluzionarie includono nei loro obiettivi la riduzione progressiva del tempo di lavoro poiché rappresentano il dissenso concesso.
6) La produzione imposta di merci materiali ed il consumo imposto di merci ideologiche si identificano e il salariato occupa le sue 24 ore alternativamente nell'una o nell'altra forma. La giornata lavorativa è ormai di 24 ore: vita produttiva e vita quotidiana coincidono ormai per la loro miseria. 
7) Nessuna forma di lavoro salariato; sebbene l'una possa eliminare gli inconvenienti dell'altra, può eliminare gli inconvenienti del lavoro salariato stesso. Perciò è indispensabile che il pensiero si armi nelle strade. 
8) Nella rivolta proletaria di Reggio Calabria, come prima di Casetta e Battipaglia, ciò è avvenuto. Il proletariato si è costituito in teppa per lanciare la sua sfida cosciente all'incoscienza dell'ordine costituito. La solitudine del proletariato ed il volto osceno e ghignante delle sue insurrezioni lasciano costernati i suoi oppressori ed i suoi falsi protettori. 
9) Gli amici napoletani di Agostino ed i devastatori calabresi hanno chiarito, per l'ultima volta, che la nuova lotta spontanea comincia sotto l'aspetto criminale e che si lancia nella distruzione delle macchine del consumo permesso. 
10) Oggi a Reggio i motivi di rivolta sono definiti «futili». Infatti il proletariato non ha particolari motivi per ribellarsi poiché li ha tutti; non ha richieste particolari da rivolgere al potere poiché il suo obiettivo è la distruzione di ogni potere che non sia quello esercitato dai consigli proletari. 
11) I Consigli Proletari non chiederanno nulla di meno della distruzione di questa società, dell'abolizione del lavoro, dell'eliminazione violenta di ogni istituzione separata (scuole, fabbriche, prigioni, chiese; partiti, etc.) poiché esisterà il potere decisionale di ciascuno nel potere unitario ed assoluto dei Consigli. 
12) I Consigli Proletari non saranno nient'altro che l'inizio della costruzione da parte di tutti della vita libera e felice oggi relegata nei desideri e nei sogni prodotti dall'infelicità dell'attuale sopravvivenza. 
13) Proletari coscienti, che la maledizione del lavoro sia maledetta, che l'ineluttabilità della produzione diventi il suo lutto.

( Archivio storico: tratto da Acheronte Ottobre 1970 Torino)

giovedì 13 dicembre 2012

L'ETA' DELLE PROFESSIONI

L’età delle professioni sarà da ricordare come l’epoca nella quale dei politici un po’ rimbambiti, in nome degli elettori, guidati da professori, affidavano ai tecnocrati il potere di legiferare sui bisogni: diventando succubi di oligarchie monopolistiche che imponevano gli strumenti con i quali tali esigenze dovevano essere soddisfatte.
Sarà ricordata come l’era della scolarizzazione, in cui alle persone per un terzo della loro vita venivano imposti i bisogni di apprendimento ed erano addestrate ad accumulare ulteriori bisogni, cosicché, per gli altri due terzi della loro vita, divenivano clienti di prestigiosi “pusher” che forgiavano le loro abitudini.
Sarà ricordata come l’era nella quale dedicarsi a viaggi ricreativi significava andare in giro intruppati a guardare la gente con l’aria imbambolata, e fare l’amore significava adattarsi ai ruoli sessuali indicati da professionisti  “sessuologi”. L’epoca  in cui le opinioni delle persone erano una replica dell’ultimo talk show televisivo e alle elezioni il loro voto serviva a premiare imbonitori e venditori perché potessero fare meglio i comodi propri.
Verrà ricordata come l’epoca nella quale un’intera generazione se ne andò alla ricerca frenetica di un benessere che impoverisce, dove tutte le libertà umane furono svendute, ad un totalitarismo “bonario” e ad un “tecno fascismo”.
Solo se comprendiamo il modo in cui la dipendenza dalle merci ha legittimato le domande, le ha trasformate in bisogni urgenti ed esasperati mentre contemporaneamente ha distrutto la capacità delle persone di provvedere a se stesse, noi potremmo evitare di avanzare verso una nuova epoca buia nella quale una auto indulgenza edonista sarà scambiata per la forma più alta di indipendenza.
Soltanto se la nostra cultura, già così intensamente mercificata, verrà sistematicamente messa di fronte alla sorgente profonda di tutte le sue connaturate frustrazioni,  potremmo sperare di interrompere l’attuale perversione della ricerca scientifica, le sempre più forti preoccupazioni ecologiche e la stessa lotta di classe, per il fatto che queste istanze stesse sono al momento principalmente al servizio di una crescente schiavitù degli individui nei confronti delle merci.

UN FUOCO DI ORIGINE SCONOSCIUTA di Patricia Lee Smith


sei dispiaciuto
forse dovrei fermarmi
essere te

un fuoco di origine sconosciuta
ha portato via la mia bambina
un fuoco di origine sconosciuta
ha portato via la mia bambina
l’ha scopata su e via
la mia lunghezza d’onda
l’ho inghiottita come l’oceano
in un fuoco spesso e grigio

la morte viene maestosa per il corridoio
come il vestito di una donna
la morte viene cavalcando
giù per l’autostrada
nel suo migliore vestito della domenica

la morte viene gridando
la morte viene strisciando
la morte viene
non posso far niente
la morte va
ci deve essere qualcosa che rimane
la morte mi ha nauseato e fatto impazzire
perché quel fuoco
ha portato la mia bambina
via

mi ha lasciato tutto
mi ha lasciato tutte le sue cose.

L'età comunale di Petr A. Kropotkin


Secondo Kropotkin, se si osserva la genesi dell’età medievale si potrà agevolmente constatare la sostanziale identità dello spirito societario presente nella formazione dei Comuni. Si potrà altresì accertare la creatività popolare sotto il segno di una fiorente spontaneità comunitaria che pervase tutte le istituzioni cittadine. Le città, infatti, non furono organizzate secondo un piano prestabilito, per volontà esterna di un legislatore, fosse questi un capo militare, un politico o un religioso. Nacquero e si svilupparono, invece, in perfetta autonomia le une dalle altre, e ciò spiega la grande diversità di forme che le attraversa. E tuttavia queste creazioni indipendenti non possono nascondere l’universale tendenza dell’umanità che si palesa, ad esempio, nelle comuni istituzioni, dalle assemblee di popolo al defensor civitatis,  dalle corporazioni di mestiere alle organizzazioni di sussistenza. In esse è sempre operante una sostanziale identità d’origine, tanto che si può parlare delle città del medioevo come di una fase ben definita della storia dell’uomo.
L’età comunale raffigura, in generale, un modello societario fondato sull’autonomia e sulla decentralizzazione. Testimonia un epoca di libertà e creatività popolare, di autonoma iniziativa individuale e di spontanea edificazione collettiva, premesse fondamentali per una democrazia dal basso e per un esercizio effettivo del potere da parte del popolo. Lo stesso sentimento nazionale, inteso come senso di appartenenza organica ad una comunità etnica e culturale, nasce dalla libera federazione della città e dei Comuni. Non è il potere della spada secondo Kropotkin, a fondare la nazione, ma la spontanea coesione culturale sedimentatasi nel corso dei secoli. Ugualmente non sono le grandi personalità politiche, militari e religiose a costituire la linfa vitale della storia, la sua ricorrente fecondità creativa, ma, al contrario, le masse anonime popolari che con le loro migliaia di atti quotidiani di concreta e spontanea solidarietà collettiva contribuirono alla costruzione societaria, a stratificare, cioè, nel corso dei secoli, quella civiltà selezionata di pratiche, di consuetudini e di saperi che globalmente costituiscono il working in progress della perfettibilità umana.  

giovedì 6 dicembre 2012

L’economia come disarmonia e conflitto


Non c’è un tempo, non c’è un luogo, un’esperienza umana dove la supremazia dell’economia abbia mai prodotto alcuna soluzione globale. L’economia al posto di comando significa inesorabilmente disarmonia e conflitto, perché ogni volta che essa funziona, funziona soltanto per un settore o per una parte (se poi non funziona non funziona per nessuno se non per LORO). Bilanci, fatturati, e indici di produzione appartengono a una grande bugia, perché nel mondo sottomesso all’economia, in testa a tutte le classifiche c’è la produzione di infelicità. Questa è la merce definitiva, il prodotto dei prodotti.
Perché l’economia non domina soltanto l’esistenza sociale, ma è scivolata ben dentro le menti, i comportamenti, le relazioni personali: guadagno, risparmio, investimenti, ricavi e costi, sono categorie che l’umanità è arrivata ad applicare a ogni circostanza; in questo senso l’economia è la più diffusa e micidiale delle sostanze inquinanti, la vera droga pesante con miliardi di tossicodipendenti. Il prezzo antropologico che l’umanità paga per qualche dose/bustina di benessere economico è lo sterminio e la depressione delle ricchezze vitali.
Non è certo nelle mani degli economisti che c’è un futuro per l’economia. Perché come tutti coloro che pretendono di seguire una fredda oggettività, gli economisti costruiscono una disciplina estranea alla ricchezza vitale. E ormai sempre più una disciplina separata, specializzata, freddamente oggettiva e razionale, non è soltanto odiosa, è anche profondamente stupida.
Alleggerire l’economia da ogni primato e da ogni privilegio è il solo modo per riservarle una possibilità di salvezza (sempre se vale la pena salvarla).
È in una dimensione di ricerca globale di nuove forme di vita, che ci potrà essere una terapia per l’economia. Alla borsa, nelle banche e nelle menti andrebbe messo un cartello con scritto: senza espansione della felicità niente sviluppo economico.

LA DECIMA VITTIMA di Elio Petri


In un futuro indeterminato, poiché le guerre sono state abolite, per dare sfogo agli istinti aggressivi dell'individuo è ufficialmente ammessa la caccia all'uomo. Basta far parte di un club internazionale ed assoggettarsi a certe semplici regole che fanno d'ogni membro, di volta in volta, un cacciatore o una preda. I superstiti di dieci "partite di caccia", che sono pochissimi, hanno diritto ad onori trionfali. Caroline, un'americana alla sua nona vittoriosa esperienza, parte per Roma dove vive la sua ultima preda, Marcello, un uomo impegolato in debiti, annoiato da una moglie avida e da un'amante querula. Intende ucciderlo durante uno spettacolo televisivo, allestito appositamente da una compagnia di pubblicità americana presso il Tempio di Venere. Marcello non tarda pero a scoprire l'identità e le intenzioni di Caroline e, avvalendosi dei diritti riconosciutigli dal regolamento, progetta a sua volta di sbarazzarsi della sua cacciatrice nel corso d'un altro trattenimento pubblicitario. Fra un attentato e l'altro, nasce però l'amore, e, schivando gli spari della moglie e dell'amante, ugualmente tradite, cacciatrice e preda si rifugiano insieme su un aereo, dove Marcello non ha altra alternativa che quella di sposare il suo mancato carnefice. 
Se si escludono le derive da commedia romantica, La decima vittima è un concentrato di ironia e perspicacia visionaria con pochi eguali nel panorama cinematografico mondiale. Anziani da consegnare alle autorità, bordelli chiamati camere di relax, party a base di strip e omicidi in diretta. Il film è del '67, ma potrebbe essere un documentario contemporaneo sui vizi della nostra società. E non solo perché il futuro ipotizzato nel film è così simile alla realtà quotidiana che ci si presenta davanti ogni giorno, ma anche grazie al linguaggio utilizzato dai protagonisti, dritto e tagliente.
Tratto dal racconto di Robert Shecklev “The Seventh Victim” Elio Petri imbastisce una vicenda di fantasia per imbastire una denuncia contro il sistema capitalistico, la società della merce e contro l'invadenza dei mass media: gli uomini sono assimilati a merci di consumo, facilmente sostituibili, ed il loro ruolo sociale è circoscritto all'occasione di uno spettacolo di massa. 
Il tema affrontato con pungente sarcasmo e ironia è quello della violenza nella società umana. La società di cui si narra è una società che non rifiuta la violenza in toto, ma che ha deciso di incanalarla con mezzi legali, dando vita ad un assurdo gioco a livello mondiale chiamato La grande caccia. Per necessità finanziarie e solo per dare sfogo alla parte violenta ed egoistica che alberga nell'uomo, liberamente gli individui decidono di partecipare a questo gioco, organizzato da un ministero apposito, il gioco prevede l'eliminazione fisica dei propri rivali. Il concorrente è alternativamente cacciatore e preda e alla fine delle dieci cacce chi sopravviverà verrà idolatrato come un dio e avrà una sorta di intangibilità nonché favori e premi. L'agire violento viene legalizzato e la morte ridotta a gioco, con tanto di sponsor, ghiotta occasione per incrementare le proprie vendite, dato che l'evento è ripreso dalle televisioni di tutto il mondo. Somma ironia la sede centrale della grande caccia, dove si estraggono a sorte le coppie cacciatore-preda è Ginevra (attualmente una delle sedi principali dell'ONU). Il film è influenzato nella parte scenografica dalla pop art e in genere dalla cultura degli anni '60, la fotografia ha la tendenza a riprendere l'impianto della fumettistica e a trasporlo in immagini in movimento.


Vietato vietare


Il grado di invadenza del governo occidentale contemporaneo probabilmente non trova uguali, per quantità di ambiti e meticolosità della prescrizione. Mai nella storia dell’umanità sono stati regolamentati in maniera così vincolante i comportamenti degli uomini
Non si può esercitare qualsiasi commercio senza autorizzazione. Sono stati vietati certi giochi di carte. Sono stati vietati innumerevoli alimenti di produzione casalinga o artigianale, ad esempio, sono stati regolamentati in maniera restrittiva i fermenti lattici utilizzabili per fare il formaggio. In diverse città le norme urbanistiche ti costringono scegliere il colore delle persiane. C’è l’obbligo per ogni cittadino di frequentare la scuola; non si tratta qui di discutere sulla bontà del processo di alfabetizzazione ma del fatto che questo venga obbligatoriamente imposto nella forma scolastica. Vaccinare i figli è indispensabile, anche per malattie oggi praticamente inesistenti. Ogni spazio  pubblico o  privato, è stato sottoposto a una sterminata, capillare, ossessionante serie di vincoli e certificazioni. È proibita la coltivazione e il consumo di marijuana. Per molti cittadini del mondo non è più possibile spostarsi liberamente. Non si possono più raccogliere castagne o legna secca per riscaldarsi perché a tutto è stata assegnata una proprietà. Per raccogliere i funghi è richiesta una autorizzazione. Non si possono cantare canzoni in pubblico perché protette dai diritti d’autore. Non si possono fare fotocopie di libri. In diversi luoghi non si può dormire all’aperto e non si possono fare fuochi. Non ci si può riposare orizzontalmente su panchine. Non si può distillare la grappa o piantare una vigna senza prima pagare per una autorizzazione. 
Si potrebbe proseguire per pagine. Considerato che viviamo nell’auto-proclamata società della libertà, la lista di ciò che non si può fare, almeno legalmente, è davvero lunga. La maggior parte sono attività che l’umanità, nei secoli, ha sempre svolto senza pensare che potessero essere rese illegali. 
Questo insieme di divieti rende, di fatto, criminosi certi stili di vita, che pur non danneggiano nessuno, se non gli interessi della burocrazia e del mercato. Si tratta di prevaricazioni che, evocando la tutela dei cittadini, permettono allo Stato di ergersi a censore di prassi difformi da quelle prevalenti:  lo Stato moderno viola tutti gli ambiti della vita, in modo da rendere virtualmente impossibile ignorare o sottrarsi alla sua influenza. L’estensione dei divieti è tuttora in corso, in fase di accelerazione. senza una reale distinzione di schieramento politico, vengono promulgate ordinanze locali che assoggettano vissuti, limitano libertà e spingono, sempre più, a dipendere dal mercato, vietando forme aggregative, ludiche e di sussistenza. Questa moltiplicazione di normative sembrano avere due principali finalità: a - implementare nuovi e più repressivi codici estetici e di decenza in un processo di musealizzazione degli ambienti; b - estinguere la possibilità di una socialità (giocare, riposarsi, mangiare, bere, dormire, amoreggiare, chiacchierare, commerciare, lavorare) gratuita per incanalarla in spazi appositi, a pagamento. Da una parte voto/delego dall’altra lavoro/guadagno/pago/consumo.

giovedì 29 novembre 2012

GLI INVENTORI DELLA NOSTRA VITA


La chiave di svolta è in ciascuno. Non ci sono istruzioni per l’uso. Quando avrete scelto di non riferirvi che a voi stessi, riderete al riferimento a un nome – il nostro, il vostro – a un giudizio, a una categoria, cesserete di imparentarvi a quella gente a cui il rimpianto astioso per non aver partecipato a un movimento della storia impedisce ancora di inventarsi una vita per se stessi.
Dipende solo da noi diventare gli inventori della nostra vita. Quanta energia gettata in questa vera fatica che è vivere in virtù degli altri, quando sarebbe sufficiente applicarla, per amore di sé, al compimento dell’essere incompiuto, del bambino chiuso dentro di noi.
A forza di snaturare ciò che pareva ancora naturale, la storia della merce tocca il punto dove bisogna deperire con essa, o ricreare una natura, una umanità totali. Sotto l’inversione dove il morto mangia il vivo, il soprassalto dell’autenticità abbozza una società dove il piacere va da se.
Il nostro godimento implica così la fine del lavoro, della costrizione, dello scambio, dell’intellettualità, del senso di colpa, della volontà di potenza. Non vediamo alcuna giustificazione se non economica alla sofferenza, alla separazione, agli imperativi, ai rimproveri, al potere. Nella nostra lotta per l’autonomia, c’è la lotta dei proletari contro la loro proletarizzazione crescente, la lotta degli individui contro la dittatura onnipresente della merce. L’irruzione della vita ha aperto la breccia nella vostra civilizzazione di morte.

LA VOGLIA DI RIDERE


Il potere, in ogni epoca passata e attuale, di qualunque colore sia; ci ha abituati a credere ai suoi ideologi ufficiali alle sue verità. Questo vecchio potere e questa vecchia verità avanzano pretese di assolutismo, non si accorgono della propria origine, dei propri limiti, della propria fine, del proprio volto vecchio e ridicolo e del carattere comico delle loro pretese di eternità e di immutabilità; non riescono a vedersi nello specchio del tempo. I rappresentati del potere e della verità recitano la loro parte con l’aspetto più serio, perché nella loro cultura la verità è ufficiale, autoritaria e si associa alla violenza, ai divieti, alle restrizioni. 
Il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso …
Il riso non impone divieti né restrizioni, il riso è la vittoria sulla paura che incatena, opprime e offusca la coscienza delle persone. Il riso ha rivelato un mondo nuovo soprattutto nel suo aspetto gioioso, è rimasto sempre l’arma della libertà nelle mani dell’uomo/donna. Il riso, l’eterna contrapposizione della serietà. 
Sulla bocca del potere la società intimidisce, esige, vieta, opprime, terrorizza, incatena e mente.
Il riso non ha dogmi, non può essere autoritario, non è segno di paura, ma è coscienza di forza, è legato all’atto sessuale, alla fecondità, al mangiare, al bere, all’immortalità dell’uomo libero.
Si tratta quindi di insorgere nella pratica del rifiuto, spezzare la normalità rassegnata, prendere coscienza della diversità che pulsa, possedere se stessi ed essere posseduti dai propri desideri. Si muore si nasce nella stanza di sempre, ma la vita è altrove; dividersi dagli assenti, non significa propriamente solitudine ma voglia di mostrare i denti.

(Archivio Bodos: volantino 1986 Torino)

La necessità di spendere come base delle guerre


Sono gli ordini dell’Amministrazione stessa quelli che ora cerchiamo di sviscerare, e tra questi l’ordine attuale dello spreco di persone che sotto pretesti economici ci impartisce. Poiché se anche lo studente di economia meno esperto scopre oggi facilmente la irrazionalità e la stupidità dei conti e delle previsioni delle imprese, o private o statali, ciò non toglie che questi conti fungano da motivazioni serie e razionali delle operazioni belliche di spreco. In effetti non si tratta più, con le nostre guerre, di guadagnare (né terre per Stati né ricchezze per bottegai), ma di sprecare; ed è lo stesso sprecare ciò che sostiene la marcia della macchina economica (i guadagni degli imprenditori non sono più altro che alimento per farli cooperare al processo) e pertanto sostiene gli Stati. Così, chiudendo il ciclo, le nostre guerre tornano dal più progredito al più arcaico, e queste, in cui si cerca di consumare uomini e attrezzi per la pura necessità di consumarli, sembrano in qualche modo quelle primitive di cui si parla, quando la Guerra, ancor prima di essere rapina, era sport e sacrifico necessario. Che lo spreco debba quindi essere indifferentemente di persone o macchine, munizioni e vestiti non è che la cosa più logica: poiché gli uomini capaci di costruire continuamente aerei sempre più cari e bombe intelligenti e depositi di carburante col solo scopo di distruggerli (e tanto meglio quanto più in fretta) non possono essere che gli uomini la cui stessa ragione di essere sta nella stessa distruzione, e più vivi quanto più in fretta si consumano.
Così che una volta sostituite le vecchie cose e persone con la loro contabilità, si producano cose e persone che fin dall’inizio non hanno altro fondamento che quello di elementi di contabilità, e che così, sottomessi gli uomini alle loro stesse leggi di economia possa lo Stato tranquillamente procrearli, immagazzinarli e spenderli come procedimento per mantenere la sua stessa esistenza.

giovedì 22 novembre 2012

Punto zero, la capitale della distruzione


Questo punto è ancora battuto dai venti, nello spazio e nel tempo sociali. È il momento dove ognuno di noi realizza che il presente è privo di vita e tutto è schifosamente programmato, che non c’è molta vita nell’esistenza quotidiana di ognuno.
Deve essere sempre chiara la differenza tra sopravvivere e vivere.
Dobbiamo portare a termine un capovolgimento di prospettiva nella nostra vita e nel mondo. Niente deve essere giusto per noi, al di fuori dei nostri desideri, della nostra volontà di esistere.
Rifiutiamo ogni ideologia di potere legata alla macchina ed ai suoi addentellati, con le loro miserabili relazioni sociali cardine di questa ultramoderna società computerizzata a nuovo ordine mondiale: il sogno è di capovolgere questo paesaggio teatrale della merce feticcio, delle proiezioni mentali, delle separazioni e delle ideologie, arte, urbanistica, etica, cibernetica, alta velocità, spille da attaccare all’occhiello, stazioni radio o messaggi televisivi che dicono di amarti e detersivi che hanno compassione delle tue mani.
Ogni giorno la gente è privata di una vita autentica, ed in cambio le viene venduta la sua rappresentazione.
Perché non liberare una volta tanto ciò che nella maggior parte della giornata sentiamo continuamente dentro di noi, la spinta a distruggere il sistema che ogni giorno con mezzi diversi ci schiaccia il cervello? Bisogna far esplodere dal loro ruolo la nostra maniacale resistenza passiva, la rabbia soggettiva del suicida, i bamboccioni sul divano, l’omicida solitario, il teppista vandalo di strada, l’automobilista pirata, il neo-dadaista, il malato senza il letto, l’alienato di professione; in modo che tutti possano, che tutti possiamo partecipare alla distruzione come progetto rivoluzionario, per poter cambiare poi la sostanza stessa della nostra vita attraverso la trasformazione delle macerie rimaste.

SONS OF THE SILENT AGE di David Bowie


Figli dell’era silenziosa
I figli dell’era del silenzio
Stanno in piedi sul marciapiede
Con gli sguardi vuoti e senza libri
Stanno seduti in fila ai confini della città
giacciono sul letto
percorrendo le loro stanze che
hanno le dimensioni di una cella
si alzano per un anno o due e fanno la guerra
esplorano i loro pensieri di un pollice
poi decidono che non avrebbero dovuto farlo
Baby non ti lascerò andare
Tutto ciò che vedo è tutto ciò che so
Cerchiamo un’altra scappatoia
Baby non ti lascerò scendere
Non posso sopportare un altro rumore  
Cerchiamo un’altra maniera
I figli dell’era del silenzio
Ascoltano brani di Sam Therapy e King Dice
Nei bar ma piangono solo una volta
Fanno l’amore solo una volta ma
Sognano e sognano
Non camminano scivolano
Soltanto dentro e fuori la vita
Non moriranno mai, un giorno si addormenteranno

Scolarizzazione e mito sociale

L’istituzione scolastica al giorno d’oggi rappresenta una nuova religione inattaccabile e universalizzata, capace di preparare l'individuo a un consumo disciplinato, diventando così il maggior datore di lavoro della nostra società. Oggi la maggior parte degli uomini sono utilizzati nella produzione di richieste che possano essere soddisfatte da un'industria a forte intensità di capitale. La maggior parte di questa operazione si realizza all’interno del perimetro scolastico durante la scolarizzazione obbligatoria. La scolarizzazione serve efficacemente a creare/diffondere/difendere il mito sociale dato, essa é il rituale di fabbricazione del mito, un rituale su cui la società contemporanea costruisce se stessa. Ne deriva una società che crede nella conoscenza, nel confezionamento della conoscenza che crede nell'invecchiamento della conoscenza e nella necessita di aggiungere conoscenza alla conoscenza.
La conoscenza non come bene, ma come valore quindi concepita in termini commerciali: conoscenza come merce.
Gli ultimi 50 anni di scolarizzazione obbligatoria hanno creato nel mondo occidentale accaniti consumatori di merce e televisione.
E' stato dimostrato che non c'è nessuna connessione tra le materie che gli individui hanno studiato a scuola e l'efficienza degli stessi nei lavori che richiedono una preparazione in quelle materie.
La scolarizzazione è un investimento di capitale della società della merce che ha come fine il controllo sociale, la stratificazione e la creazione di una società di classe suddivisa in livelli.
Le scuole finiscono inevitabilmente a produrre un gran numero di emarginati, un numero limitato di successi e una netta preponderanza di fallimenti. Una sorta di lotteria dove quelli che non ce la fanno perdono non soltanto quello per cui hanno pagato, ma rimangono segnati per il resto della loro vita come individui inferiori.   

giovedì 15 novembre 2012

La gestione elettronica della società



La società gestita dai computer, fa suonare un campanello di allarme, in quanto contiene una chiara previsione del fatto che le macchine che scimmiottano gli esseri umani tendono ad infiltrarsi in ogni aspetto della vita delle persone e le costringono a comportarsi come macchine, I nuovi dispositivi elettronici hanno in verità il potere di costringere  le persone a “comunicare” con essi e con gli altri esseri umani nei termini dettati dalla macchina stessa. Ciò che strutturalmente non rientra nella logica della macchina viene filtrato, e in pratica scompare da una cultura dominata dal loro uso.
Il comportamento meccanico degli esseri umani incatenati all'elettronica corrisponde ad un deterioramento del loro benessere e della loro dignità, a lungo andare insopportabile per la maggior parte di essi. Le osservazioni sulla nocività degli ambienti elettronicamente programmati dimostrano che in essi le persone diventano indolenti, impotenti, narcisisti, e apolitiche. Il processo politico si deteriora perché la gente diviene incapace di governarsi e chiede di essere gestita.
La gestione elettronica della società è questione di ecologia politica. I dispositivi di gestione elettronica devono essere considerati come mutamento tecnico dell'ambiente umano che per essere innocuo deve essere affrontato in termini politici non solo tecnici. Non dobbiamo dimenticare che i dispositivi elettronici, i computer sono risorse produttive e in quanto tali necessitano di un regime di polizia, che sarà presente in forme sempre maggiori e in forme sempre più sottili. 

Aggressività: attacco e difesa


Ciò che normalmente si esprime come aggressività è una protesta distorta, inibita e canalizzata. Previene gli scontri aperti, è diretta contro noi stessi e, gradino per gradino, dall’alto in basso, giunge a porre l’operaio contro l’operaio. 
Le forme transitorie costituiscono delle scappatoie destinate a mascherare lo scontro di classe, a soffocare le contraddizioni, ad attizzare una piccola guerra tra gli sfruttati.
Finché noi giriamo intorno alle nostre difficoltà invece di attaccarle direttamente non cambia nulla. La parola aggressione viene dal latino “aggredi” = andare contro. L’SPK veniva spesso rimproverato da studenti di sinistra e simpatizzanti di essere aggressivo, ingenuo, ecc.
Questo rimprovero è indice dell’incapacità (dell’angoscia) di questi “gauchistes” a rompere con le convenzioni borghesi, al contrario essi si contornano di leaders, usano liste di oratori e forme ordinate di discussione. Riproducendo così nelle loro organizzazioni le strutture che vogliono combattere a livello di massa. 
In ogni lotta di liberazione si tratta per i combattenti, di trarre un principio affermativo dal loro ruolo forzato di oggetto. Così i malati, in quanto privi di diritto, hanno un diritto naturale all’autodifesa, cioè alla difesa dell’essenza vitale che resta loro, che è esposta agli assalti continui degli agenti di morte del capitale.
L’autodifesa non è fine a se stessa, ma è una strategia che conserva i resti dell’essenza vitale, la vita, per introdurla nella lotta di liberazione collettiva. In questo processo l’autodifesa comprende già il suo contrario, l’attacco come lotta collettiva sulla base della cooperazione e della solidarietà, nuovo metodo e nuovo fenomeno. La lotta collettiva è il nuovo fenomeno in cui l’opposizione dialettica tra attacco e difesa viene superata.
(Archivio storico: SPK fare della malattia un’arma 1971 Germania) 

L’ANARCHIA di Anselme Bellegarrigue


Chi dice anarchia, dice negazione del governo;
Chi dice negazione del governo, dice affermazione del popolo;
Chi dice affermazione del popolo, dice libertà individuale; 
Chi dice libertà individuale, dice sovranità di ciascuno;
Chi dice sovranità di ciascuno, dice eguaglianza;
Chi dice eguaglianza, dice solidarietà o fraternità;
Chi dice fraternità, dice ordine sociale;
Dunque chi dice anarchia, dice ordine sociale.
Al contrario:
Chi dice governo, dice negazione del popolo:
Chi dice negazione del popolo, dice affermazione dell’autorità politica;
Chi dice affermazione dell’autorità politica, dice dipendenza individuale;
Chi dice dipendenza individuale, dice supremazia di casta;
Chi dice supremazia di casta, dice disuguaglianza;
Chi dice disuguaglianza, dice antagonismo;
Chi dice antagonismo, dice guerra civile;
Dunque chi dice governo, dice guerra civile.
Non so se quanto ho appena detto sia nuovo o eccentrico, oppure spaventoso. Non lo so e nemmeno mi preoccupo di saperlo.
Ciò che so è che posso mettere liberamente in gioco i miei argomenti contro tutta la prosa del governativismo bianco e rosso passato, presente e futuro. La verità è che, su questo terreno, quello cioè di un uomo libero, estraneo all’ambizione, accanito nel suo lavoro, sdegnoso di comandare, ribelle alla sottomissione, sfido tutti gli argomenti del funzionalismo, tutti i logici dello stipendio e tutti i gazzettieri dell’imposta monarchica o repubblicana, che si chiami progressiva, proporzionale, fondiaria, capitalista, di rendita o di consumo.
Sì, l’anarchia è l’ordine; perché, il governo è la guerra civile.      
L’abnegazione è schiavitù, avvilimento, abiezione; è il re, è il governo, è la tirannia, è la lotta, è la guerra civile.
L’individualismo, al contrario, è l’affrancamento, la grandezza, la nobiltà; è l’uomo, è il popolo, è la libertà, è la fraternità, è l’ordine.


giovedì 8 novembre 2012

Sfidare la vera anima del capitalismo


Per almeno 5000 anni i movimenti popolari si sono concentrati sulle lotte per il “debito”. C'è una ragione per tutto questo: il debito è il mezzo più efficiente mai creato per mantenere relazioni fondamentalmente basate sulla violenza e su diseguaglianze violente, facendole sembrare giuste ed eticamente corrette. Quando il trucco non funziona più, esplode tutto. E quello che sta accadendo adesso. Il debito ha chiaramente dimostrato di essere il fattore di maggior debolezza del sistema, il punto in cui si perde il controllo e consente agli oppositori infinite opportunità di gestione. Si parla di sciopero del debito, di cartello dei debitori. Si potrebbe iniziare con garanzie  contro gli sfratti: di quartiere in quartiere, aiutandoci gli uni con gli altri. La forza della contrapposizione non sta solo nello sfidare i regimi del debito, ma nello sfidare la vera anima del capitalismo, la sua base morale, ora svelata da una serie di promesse tradite, per fare ciò occorre creare una nuova realtà.
Un debito è solo una promessa e il mondo di oggi è pieno di promesse che non sono state mantenute. 
Tutto questo sistema si sta sbriciolando. Quello che rimane è solo ciò che riusciamo a prometterci a vicenda, direttamente, senza la mediazione di burocrazie economiche e/o politiche. La rivoluzione inizia con il chiedersi: che tipo di promesse fanno gli uomini e le donne liberi e come possiamo costruire un mondo nuovo attraverso queste promesse? 

REVOLUTION SONG di Lance Henson


l’alba porta con sé il dolore della luce
di qualcuno che non vuole essere visto
una voce che deve essere nascosta
in un luogo
che non le appartiene
è un fiume o una brezza
o l’acqua che scorre e piange
di sé
che ti fa desiderare di essere libero ?
il canto proibito di un grillo
giace tra le rose
un vento aleggia intorno sussurrando di Che Guevara
e di Cavallo Pazzo
in un mattino di gelo
nel dolore del risveglio
il grido dell’umanità esce da sé
impossibile da fermare
come il gocciolio dell’acqua
come il pianto di un bambino

Alfred Jarry il sovversivo


“Guarda guarda la macchina girare,
guarda guarda il cervello saltare, 
guarda guarda il riccone tremare
Urrà, corna-in-culo, viva Ubù!”
 Alfred Jarry detto l’indiano, ama le inquietudini dell’esistente, le demoniache illuminazioni, le scienze occulte, l’araldica, la bicicletta, le rivoltelle. È lui che, con due pistole, durante uno spettacolo circense terrorizza i vicini nel tentativo di convincerli delle sue capacità di domatore. È sempre lui che in un giardino stappa bottiglie di champagne a pistolettate e che, alla madre imbufalita di due pargoletti che giocano lì accanto, risponde di non preoccuparsi in caso di decesso “ve ne faremo degli altri”. Una volta dopo aver sparato ad uno scultore reo, a suo dire, di avergli fatto proposte sconvenienti, si rivolge agli amici che lo trascinavano via dicendo: “Mica male come letteratura, vero?”. È il geniale inventore di re Ubù, l’incontinente, crudele, ingorda, proterva, vile, boriosa, tracotante e all’occorrenza schifosamente prona, simbolica incarnazione del potere.
Quando la commedia “Ubù re” viene rappresentata per la prima volta nel 1896 esplode l’entusiasmo e nasce un mito. Il senso eversivo ed anarchico della commedia, la critica delle istituzioni sono troppo simbolicamente vere per essere perdonate. Jarry è celebre, ma povero in canna. Nessuno vuole pubblicare o rappresentare cose sue. Sarà inevitabile per lui, che è ben lontano dall’accettare una vita incanalata nell’ordine della banalità, convivere con la miseria e la fame prima di morire in ospedale a 34 anni. Senza negarsi un ultimo sberleffo. In punto di morte, al medico che gli chiedeva se c’era qualche cosa che avrebbe potuto fargli piacere, risponde: “si, uno stuzzicadenti”.
le biciclette e le armi di Jarry


giovedì 1 novembre 2012

PROVIAMO A VIVERE SENZA OROLOGIO


L’immaginazione è l’arma più potente a nostra disposizione, e possiamo usarla nel miglior modo possibile applicandola alla trasformazione della realtà di tutti i giorni, anziché farne una rappresentazione simbolica.  Dobbiamo smettere di sacrificare il nostro lavoro per la produzione di massa, dobbiamo stare attenti alla qualità della vita, valutare le nostre azioni in termini di esperienza e non di risultati, perché sappiamo bene che il principio democratico del siamo tutti eguali  è una mistificazione bella e buona, imbastita dalle leggi della competizione. Ciò di cui necessitiamo ora è sperimentare un sistema nuovo nel quale tutti possano ricevere una quota di benessere equamente re-distribuita, proviamo a vivere senza orologio senza sincronizzare la nostra vita con il resto del mondo. 
Dall’esperienza rivoluzionaria anarchica dobbiamo imparare quanto nessuno sia più qualificato di noi stessi a decidere che cosà sarà della nostra vita, e la versione della realtà che offriamo è incompatibile per natura con i progetti di socialità imposti dal capitalismo nel mondo. L’anarchia ci spinge a desiderare un modello consensuale dove poter scegliere individualmente (e se necessario collettivamente) sul come gestire presente e futuro delle nostre esistenze, senza dover essere necessariamente costretti nelle leggi della domanda e dell’offerta. Prendendo per buono il valore della ricchezza, calcolata sulla quantità di persone e cose che controlla, il libero mercato ha seminato pregiudizi di razzismo ovunque, addomesticando ogni zona vitale con la scelta forzata del lavoro.
L’dea di società consensuale che immaginiamo è fondata su un’economia del dono, in cui il tempo del lavoro possa emanciparsi dalla produzione per riempirsi di libertà, gioco, pigrizia e divertimento. All'accumulare le risorse preferiamo la condivisione totale, al dare le nostre energie l’atto dello scambiarle, e se pensiamo all'amore come ultimo atto sovversivo nella nostra guerra è solo perché vediamo troppo odio in giro a governare il mondo.

Rivoluzione, anarchia e comunismo di Carlo Cafiero


Anarchia vuol dire assenza di potere, assenza di autorità, assenza di gerarchia, assenza di ordine prestabilito – ordine stabilito dai pochi o dai primi, che è legge per i molti o per i secondi.
È mai possibile essere libero quando si è sottoposto ad un potere o ad una autorità qualunque? Si può mai considerare libero quell’uomo che può ricevere un comando da un altro uomo? Dov’è mai la nostra libertà, quando noi siamo costretti dalla legge a conformarci ad un ordine prestabilito, il quale ci riesce già insopportabile per il solo fatto che ci è imposto? Un vero amico della libertà deve essere nemico di ogni potere, di ogni autorità, di ogni comando, di ogni elevazione di uomo al di sopra di altri uomini, deve essere nemico di ogni legge, di ogni ordine prestabilito, deve essere, in una parola, un anarchista.
La vera libertà non si otterrà che nell’anarchia, che è per conseguenza il primo termine necessario della rivoluzione. Oggi, l’anarchia vuole che si attacchi, si combatta e si distrugga lo stato, che è l’organismo di tutti i poteri costituiti: la grande macchina politica che opprime l’uomo assicurandone lo sfruttamento. Ma fatta tavola rasa di tutto l’ordine esistente, l’anarchia esige che s’impedisca ogni nuovo impianto di autorità, ogni nuova supremazia, ogni nuovo dispotismo, ogni impianto di nuovo stato.
Oggi l’anarchia ha un carattere aggressivo e distruttivo: domani avrà un carattere preservativo e protettivo. Oggi è rivoluzione diretta: domani rivoluzione indiretta, impedimento della reazione.
Domani abbattuti gli ostacoli, l’anarchia sarà solidarietà ed amore: libertà completa di tutti. Essa formerà l’ambiente necessario allo sviluppo della felicità umana, allo sviluppo della vera libertà e della vera uguaglianza, all’avvenimento ed allo stabilimento definitivo della rivoluzione fra gli uomini. Anarchia sarà domani libero e completo sviluppo dell’individuo, che spinto solamente dai suoi gusti, dalle sue tendenze e simpatie, si assocerà con gli altri nel gruppo, nella corporazione od associazione che dir si voglia, le quali alla loro volta si federeranno liberamente nel comune, come i comuni nella regione, le regioni nella nazione e le nazioni nell’umanità.   

LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI di George A. Romero


Barbra e suo fratello Johnny sono in un cimitero di campagna per rendere omaggio alla tomba del padre. Un uomo lentamente si avvicina e aggredisce la ragazza senza motivo. Johnny interviene, ma ha la peggio e muore. Barbra scappa e si ripara terrorizzata in una casa. Intanto altre strane figure sopraggiungono e circondano l’abitazione: sembrano in stato di trance e non emettono che soffusi lamenti. In casa si è rifugiato anche un giovane di colore, Ben, che sbarra tutte le porte e respinge un primo attacco degli aggressori. Poco dopo si scopre che nascosti in cantina sono sfuggiti al pericolo anche una giovane coppia di fidanzati, Tom e Judy, e un uomo di nome Harry Cooper con la moglie Helen e la figlia Karen. Grazie alle notizie diffuse dalla radio e dalla televisione, il gruppo scopre che gli aggressori non sono altro che morti tornati in vita, forse a causa delle radiazioni di una sonda proveniente da Venere. La televisione annuncia che per annientare i morti viventi occorre colpirli alla testa e poi bruciarli. La tensione e la mancanza di solidarietà fa si che uno ad uno muoiono tutti, meno il ragazzo di colore. Ben unico sopravvissuto, si barrica in cantina e si addormenta. Al mattino le squadre guidate dallo sceriffo McClelland arrivano fino alla casa sterminando tutti i morti viventi che incontrano. Ben sente i rumori e si affaccia alla finestra, ma viene scambiato per uno zombie e ucciso da un colpo di fucile alla testa.
Il film di Romero si propone come prodotto cinematografico originale e radicale. La dialettica tra l’interno (gli assediati) e l’esterno (gli zombie), si rivela più apparente che virtuale. Tra i vivi che stanno per morire e i morti viventi non c’è opposizione ma specularità. Il gruppo di uomini non si allea per respingere il pericolo, ma ripropone al suo interno una serie di conflitti sociali che si rivelano letali.
Sin da quando uscì nelle sale, critici e storici cinematografici videro ne La notte dei morti viventi un film sovversivo che opera una critica contro la società statunitense degli anni sessanta.
 E' un'opera che ha generato un’immane quantità d’interpretazioni sociologiche, nonostante Romero abbia sempre affermato che niente di tutto questo fosse minimamente voluto. È altresì indubbio che la pellicola abbia risentito del cambiamento culturale del tempo. Si può quindi leggere tra i fotogrammi una critica alla guerra, all’individualismo capitalista, alla libera diffusione delle armi, al razzismo e all’inutilità dello Stato.
La certezza della sacralità della famiglia Americana, si sgretola completamente alla vista di una figlia che uccide e divora i propri genitori; le incomprensioni tra Ben, l’unico personaggio di colore nel film, e gli altri componenti del gruppo, fanno capire che l’integrazione razziale è ancora ben lontana dal divenire una realtà; la legge e l’ordine vengono ben rappresentati da gruppi volontari decisi a farsi giustizia da soli; lo spettro della guerra del Vietnam rivive tra le bande armate che pattugliano i campi e sparano e bruciano tutto ciò che si para davanti al loro cammino.
La notte dei morti viventi è un immensa radicale critica della ragione viva e vegeta. I morti sembrano più che infastiditi dal fatto di essere scimmiottati  dai vivi, il cui ideale è diventato, con l’aumentare del benessere, uno stato di pura carcassa svuotata di senso e volontà, riempita di nevrotica propensione al consumo totale.




giovedì 25 ottobre 2012

Descolarizzare la nostra visione del mondo


All’inizio del secolo XVII cominciò ad affermarsi un nuovo consenso, intorno all’idea che l’uomo nascesse inidoneo alla società e tale rimanesse se non gli si forniva una “educazione”. L’educazione venne così a indicare l’opposto dell’attitudine vitale. L’educazione si identificò con una merce, immateriale che andava prodotta a beneficio di tutti, e a tutti dispensata nella stessa maniera. La giustificazione al cospetto della società divenne la prima esigenza dell’uomo, che viene al mondo in una condizione di stupidità analoga al peccato originale.
L’interesse ad educare la propria prole è antico ma si è dovuto attendere l’età moderna per vedere un sistema razionale di repressione, controllo e ridimensione del Sapere. L’idea di fondo della scolarizzazione istituzionale è che gli uomini non nascono uguali, ma lo diventano grazie ad un periodo di gestazione nel ventre della scuola, che guida a staccarsi dal proprio ambiente naturale, per approdare nella società civile come idonei cittadini-consumatori.
La scuola-istituzione, oltre a trasformare il sapere in merce e le attività umane in prestazioni professionali, è riuscita a legittimare la gerarchia del privilegio e del potere – nel medioevo affidata al favore del re o del papa – attraverso l’istituto liberale dell’istruzione obbligatoria che autorizza colui che è ben scolarizzato a considerare colpevole chi resta indietro nel consumo di sapere, in quanto dispone di un titolo inferiore.
Si è compiuto il paradosso del servo che non riesce più a vivere senza l’obbedienza al padrone e, con una adeguata colonizzazione dell’immaginario fornita dai media, nemmeno più immaginarsi senza catene. Né l’alchimia né la magia sono in grado di risolvere il problema dell’attuale crisi, che non sta nell’Aula bensì nell’Istruzione-Istituzione.
Occorre descolarizzare la nostra visione del mondo, e per arrivare a questo dobbiamo riconoscere il carattere illegittimo e religioso dell’impresa scolastica in se stessa. La sua hubris sta nel proposito di fare dell’uomo un essere sociale sottoponendolo a un trattamento entro un processo predeterminato.