effetti come l'impresa rimpiazza la fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola ed il controllo continuo a prendere il posto dell'esame. Questo è il sistema più sicuro per legare la scuola all'impresa. Nelle società disciplinari non si finiva mai di ricominciare (dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica), mentre nelle società del controllo non si è mai finito con nulla, in quanto l'impresa, la formazione, il servizio sono gli stati metastabili e coesistenti di una stessa modulazione, come di un deformatore universale. Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l'individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa. Le società disciplinari non hanno mai riscontrato incompatibilità tra i due, il potere è al tempo stesso massificante ed individualizzante, cioè costituisce come corpo quelli sui quali si esercita e modella l'individualità di ciascun membro del corpo. Nelle società del controllo, al contrario, l'essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra: la cifra è una mot de passe [parola d'ordine nel senso di pass-word, codice d'accesso], mentre le società disciplinari sono regolate da mot d'ordre [parola d'ordine nel senso di slogan], sia dal punto di vista dell'integrazione che della resistenza. Il linguaggio digitale del controllo è fatto di cifre che segnano l'accesso all'informazione, o il rifiuto. Non ci si trova più di fronte alla coppia massa/individuo. Gli individui sono diventati dei "dividuali", e le masse dei campioni statistici, dei dati, dei mercati o delle "banche". È forse il denaro che meglio esprime la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre relazionata a delle monete stampate che riaffermavano l'oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a degli scambi fluttuanti, modulazioni che fanno intervenire come cifra una percentuale di differenti monete. La vecchia talpa monetaria è l'animale degli ambienti di reclusione, mentre il serpente è quello delle società del controllo. Siamo passati da un animale all'altro, dalla talpa al serpente, nel regime in cui viviamo, ma anche nel nostro modo di vivere e nei nostri rapporti con l'altro.
Bodo’s Project è un progetto di comunicazione “altra” per la creazione e la circolazione di scritti, foto e di video geneticamente sovversivi. La critica radicale per azzerare la società della merce; la decrescita, il primitivismo, la solidarietà per contrastare ogni forma di privatizzazione iniziando dall’acqua. Il piacere e la gioia di costruire una società dove tutti siano liberi ed uguali.
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giovedì 26 dicembre 2019
La Società del controllo di Gilles Deleuze
I differenti "internati" o ambienti di reclusione attraverso i quali l'individuo passa sono delle variabili indipendenti: ogni volta si presume di ricominciare da zero, ed un linguaggio comune a tutti questi ambienti esiste, ma è analogico. Tanto che i differenti "controllati" sono delle variazioni inseparabili, che formano un sistema a geometria variabile il cui linguaggio è digitale (il che non vuol dire necessariamente binario). Le reclusioni sono modelli-stampi, delle distinte modellature, mentre i controlli sono una modulazione, come una modellatura auto-deformante, che si modifica continuamente, da un istante all'altro, o come un setaccio le cui maglie cambiano da un punto all'altro. Lo si vede bene sulla questione dei salari: la fabbrica era un corpo che portava le sue forze interne ad un punto di equilibrio, il più alto possibile per la produzione, il più basso possibile per i salari; ma nella società del controllo l'impresa ha sostituito la fabbrica, e l'impresa è un'anima, un gas. Senza dubbio già la fabbrica conosceva il sistema dei premi, ma l'impresa si sforza più profondamente d'imporre una modulazione di ogni salario, in stati di perpetua metastabilità che passano attraverso sfide, concorsi e colloqui estremamente comici. Se i giochi televisivi hanno tanto successo è perché esprimono adeguatamente la situazione dell'impresa. La fabbrica costituiva gli individui in corpo, per il doppio vantaggio e del padronato che sorvegliava ogni elemento nella massa, e dei sindacati che mobilitavano una massa di resistenza; ma l'impresa non cessa di introdurre una rivalità inespiabile come sana emulazione, motivazione eccellente che oppone gli individui tra di loro ed attraversa ognuno, dividendolo in se stesso. Il principio modulatore del "salario al merito" non manca di tentare anche la stessa Educazione nazionale: in
effetti come l'impresa rimpiazza la fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola ed il controllo continuo a prendere il posto dell'esame. Questo è il sistema più sicuro per legare la scuola all'impresa. Nelle società disciplinari non si finiva mai di ricominciare (dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica), mentre nelle società del controllo non si è mai finito con nulla, in quanto l'impresa, la formazione, il servizio sono gli stati metastabili e coesistenti di una stessa modulazione, come di un deformatore universale. Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l'individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa. Le società disciplinari non hanno mai riscontrato incompatibilità tra i due, il potere è al tempo stesso massificante ed individualizzante, cioè costituisce come corpo quelli sui quali si esercita e modella l'individualità di ciascun membro del corpo. Nelle società del controllo, al contrario, l'essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra: la cifra è una mot de passe [parola d'ordine nel senso di pass-word, codice d'accesso], mentre le società disciplinari sono regolate da mot d'ordre [parola d'ordine nel senso di slogan], sia dal punto di vista dell'integrazione che della resistenza. Il linguaggio digitale del controllo è fatto di cifre che segnano l'accesso all'informazione, o il rifiuto. Non ci si trova più di fronte alla coppia massa/individuo. Gli individui sono diventati dei "dividuali", e le masse dei campioni statistici, dei dati, dei mercati o delle "banche". È forse il denaro che meglio esprime la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre relazionata a delle monete stampate che riaffermavano l'oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a degli scambi fluttuanti, modulazioni che fanno intervenire come cifra una percentuale di differenti monete. La vecchia talpa monetaria è l'animale degli ambienti di reclusione, mentre il serpente è quello delle società del controllo. Siamo passati da un animale all'altro, dalla talpa al serpente, nel regime in cui viviamo, ma anche nel nostro modo di vivere e nei nostri rapporti con l'altro.
effetti come l'impresa rimpiazza la fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola ed il controllo continuo a prendere il posto dell'esame. Questo è il sistema più sicuro per legare la scuola all'impresa. Nelle società disciplinari non si finiva mai di ricominciare (dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica), mentre nelle società del controllo non si è mai finito con nulla, in quanto l'impresa, la formazione, il servizio sono gli stati metastabili e coesistenti di una stessa modulazione, come di un deformatore universale. Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l'individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa. Le società disciplinari non hanno mai riscontrato incompatibilità tra i due, il potere è al tempo stesso massificante ed individualizzante, cioè costituisce come corpo quelli sui quali si esercita e modella l'individualità di ciascun membro del corpo. Nelle società del controllo, al contrario, l'essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra: la cifra è una mot de passe [parola d'ordine nel senso di pass-word, codice d'accesso], mentre le società disciplinari sono regolate da mot d'ordre [parola d'ordine nel senso di slogan], sia dal punto di vista dell'integrazione che della resistenza. Il linguaggio digitale del controllo è fatto di cifre che segnano l'accesso all'informazione, o il rifiuto. Non ci si trova più di fronte alla coppia massa/individuo. Gli individui sono diventati dei "dividuali", e le masse dei campioni statistici, dei dati, dei mercati o delle "banche". È forse il denaro che meglio esprime la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre relazionata a delle monete stampate che riaffermavano l'oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a degli scambi fluttuanti, modulazioni che fanno intervenire come cifra una percentuale di differenti monete. La vecchia talpa monetaria è l'animale degli ambienti di reclusione, mentre il serpente è quello delle società del controllo. Siamo passati da un animale all'altro, dalla talpa al serpente, nel regime in cui viviamo, ma anche nel nostro modo di vivere e nei nostri rapporti con l'altro.
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PAGINA DI ZOOLOGIA di Erri De Luca
Anche quest'anno ho sentito il maiale
di là dal campo gridare afferrato.
Poi soffia rauco, sbuffa, per la fatica di essere ammazzato.
Anche quest'anno dai vicini è festa,
tutti i sensi ricevono un regalo dal coltello,
tranne l'udito, Il mio.
Un pesce è saltato dall'onda per addentare una farfalla bianca
a volo spezzettato. Il pesce ritorna sul fondo
ha gustato la carne dell'angelo.
Ho visto la lepre correre sopra la neve
lascia orme a matita dove spinge coi salti.
Affondavo al polpaccio nel pendio
la lepre saltellava spiritosa
per ammazzarla serve, oltre al fucile,
un'invidia più dell'ammirazione.
Quando una donna è uccisa va sprecata a valanghe
una quantità di amore tropicale. Resto derubato
della felicità che poteva arrivare fino a me.
Quando è ammazzato un uomo mi passa per la testa:
c'è meno concorrenza per gli abbracci.
Pensieri di animale poco, e da poco, addomesticato.
di là dal campo gridare afferrato.
Poi soffia rauco, sbuffa, per la fatica di essere ammazzato.
Anche quest'anno dai vicini è festa,
tutti i sensi ricevono un regalo dal coltello,
tranne l'udito, Il mio.
Un pesce è saltato dall'onda per addentare una farfalla bianca
a volo spezzettato. Il pesce ritorna sul fondo
ha gustato la carne dell'angelo.
Ho visto la lepre correre sopra la neve
lascia orme a matita dove spinge coi salti.
Affondavo al polpaccio nel pendio
la lepre saltellava spiritosa
per ammazzarla serve, oltre al fucile,
un'invidia più dell'ammirazione.
Quando una donna è uccisa va sprecata a valanghe
una quantità di amore tropicale. Resto derubato
della felicità che poteva arrivare fino a me.
Quando è ammazzato un uomo mi passa per la testa:
c'è meno concorrenza per gli abbracci.
Pensieri di animale poco, e da poco, addomesticato.
L’Orgoglio Anarchico ai tempi di Amedeo Bertolo
L’orgoglio anarchico è l’orgoglio di far parte di una minoranza agente che opera nella storia ma contro la storia, un altro cruciale filo conduttore, che contestualizza questo orgoglio, è l’urgente necessità di attualizzare l’anarchismo. Già all’inizio degli Sessanta, quando comincia il suo impegno militante in un movimento senescente, la carica dirompente dell’anarchismo classico sembra essersi diluita, come scrive, “nella stanca e retorica riproposizione di un’obsoleta vulgata anarchica”. Il passaggio dalla modernità alla postmodernità, le cui dinamiche non vengono colte nell’immediato (quanto meno in Italia), ha infatti spinto l’anarchismo nel vicolo cieco di una pura reiterazione che gli ha tolto incisività. È il salutare scossone del 1968 a riattivare una vitalità solo sopita, segnando al contempo un radicale cambiamento di paradigma: l’orizzonte non è più il domani, la società del futuro alla quale accedere attraverso una rivoluzione palingenetica, ma è il qui e ora, è il vivere e agire da anarchici nella società attuale stando ben attenti a non farsi assimilare da questo qui e ora.
L’urgenza è dunque quella di avviare una riflessione a tutto campo, alla quale deve corrispondere una sperimentazione a tutto campo, per definire i contorni di una rottura sociale che non si configura più come le gran soir, ma come una mutazione – culturale, immaginaria, etica… - altrettanto epocale e sovversiva, in grado non solo di ridefinire valori e comportamenti, ma di dissolvere l’inconscio gerarchico che è in tutti noi. Perché lo Stato è soprattutto nella testa della gente, dei servi più ancora che dei padroni”.
L’urgenza è dunque quella di avviare una riflessione a tutto campo, alla quale deve corrispondere una sperimentazione a tutto campo, per definire i contorni di una rottura sociale che non si configura più come le gran soir, ma come una mutazione – culturale, immaginaria, etica… - altrettanto epocale e sovversiva, in grado non solo di ridefinire valori e comportamenti, ma di dissolvere l’inconscio gerarchico che è in tutti noi. Perché lo Stato è soprattutto nella testa della gente, dei servi più ancora che dei padroni”.
giovedì 19 dicembre 2019
PIAZZA FONTANA Cinquant'anni fa - L'arresto di Valpreda
Valpreda è un poco burlone, "un simpatico casinista" lo ha definito una volta Licia Pinelli, ma è anche persona sensibile e di buona cultura, molto socievole e che in casa ha una ricca biblioteca.
Pino e Pietro si conoscono bene, anche se Pinelli non sempre condivide quel fare goliardico e tra i due nasce ogni tanto qualche screzio e qualche litigio — come si conviene tra compagni — ma nulla di serio e tanto meno duraturo. I media ingigantiranno poi indecentemente questo aspetto, al solo scopo di denigrare Valpreda
La mattina del 15 dicembre, mentre si svolgono i fuerali delle vittime, Pietro Valpreda, 36 anni, milanese, viene fermato a Milano all'interno del Palazzo di Giustizia mentre alle 10,35 esce dall'ufficio del Giudice Amati che lo aveva convocato tempo prima per una imputazione di "offesa al Papa".
Così racconta Valpreda: “Il giudice vuole vedermi. Così mi comunica Improta, il quale aggiunge che il mio avvocato mi attende al palazzo di giustizia. Erano ormai due giorni e una notte che non conoscevo un attimo di respiro. La testa mi ciondolava sul petto, gli occhi mi bruciavano, mi sentivo sporco, coi vestiti stazzonati, la barba che mi pungeva. Capii che anche questo piccolo particolare del non consentire di radersi è un modo di stroncare l'individuo caduto nelle mani della polizia. Ero veramente a terra, mi sentivo uno straccio, ma il peggio doveva avvenire. Attraversiamo il cortile del “palazzaccio”, saliamo una rampa di scale, percorriamo corridoi bui e tetri. Mi trovo seduto su una panca contro il muro. Mi guardo attorno e a un tratto noto quattro persone che spiccano in mezzo agli altri agenti trasandati. Mi accompagnano. Sono quattro signori pressappoco della mia statura, ma hanno tutti un aspetto lindo e ordinato, il loro bel cappottino alla moda, la camicia bianca con la cravatta ben annodata, le guance rasate di fresco, i capelli pettinati come si deve. Sembrano pronti per andare a una festa. Quale festa, la mia? Così trascorrono le ore, non saprei dire con esattezza quanto tempo ho passato su quella panca. A un certo punto riconosco l'avvocato Calvi. Si fa largo tra i poliziotti e mi viene incontro. Mi alzo per stringergli la mano e chiedo, con la speranza di avere finalmente un po' di luce, di uscire da questo stato di rimbambimento: " Guido! Ma che cosa sta succedendo? Cosa vogliono da me? ". Calvi mi tranquillizza dicendo che devo subire un confronto *. Per la legge, non può aggiungere altro; riesce solo a sussurrarmi: "
Comincia il confronto. Fra i cinque io sono secondo partendo dalla mia destra. Calvi mi si avvicina, cerca di rassettarmi la camicia e la cravatta spiegazzata, mi ravvia i capelli con la mano e mi dà un paio di colpetti sulla guancia esortandomi a tenere gli occhi aperti. Faccio uno sforzo per sembrare il più normale possibile. Ma non posso cancellare le trenta ore di stanchezza fisica e morale. Si spalanca la porta, entrano tre persone. Improta ha accompagnato nella stanza del giudice il famoso teste Rolandi. Ricordo che aveva un modo strano di agitare il braccio destro. Si aggiustava di continuo la sciarpa scura attorno al collo. Per tutto il breve periodo di tempo che rimase nella stanza evitò di guardarmi negli occhi. Il giudice Occorsio, si rivolge a Rolandi e gli pone la domanda di rito: " Riconosce in uno di questi signori il passeggero del suo taxi? ". Rolandi si sposta leggermente verso di noi che siamo schierati. Rivedo la scena: il tassista è un uomo robusto, ma in questo momento si stringe nelle spalle come per farsi piccolo, si curva, spingendo in avanti la testa come una tartaruga. In mezzo al suo faccione spicca il naso a patata. Sta girato verso il giudice e non alza quasi mai da terra lo sguardo sfuggente. Ha un po' l'aria furtiva, dipenderà forse anche dal vestiario dimesso. Sembra il più traumatizzato di tutti. Solleva impercettibilmente lo sguardo, lo fa scorrere velocemente su noi cinque allineati e senza esitazione mi indica con un dito dicendo in milanese:"L'è lü" (è lui).
La mia reazione, anche se ero stupito, è stata di fare un piccolo passo avanti ed esclamare: "Ma mi hai guardato bene?". Per alcuni istanti nella sala ci fu silenzio, poi Rolandi disse qualcosa, una breve frase come "Non c'è" o forse "Allora non c'è ". A questo punto intervenne l'avvocato Calvi il quale, rivolgendosi al giudice, gli fece notare che il teste aveva praticamente ritrattato. Come ho sentito io, così devono aver sentito tutti i presenti. Ma la reazione di Occorsio fu fulminea: si rivolse in fretta a quanti erano nella stanza chiedendo, quasi avesse voluto fornire lui stesso la risposta e evitarne altre: " Qualcuno ha sentito? no? Lei Rolandi conferma il riconoscimento? Bene, cancelliere, scriva che il teste conferma il riconoscimento ". E' avvenuto tutto in pochi secondi. Occorsio parla come accavallando le frasi, incastrandole l'una dentro l'altra, tutti i presenti fanno scena muta. Cade nel vuoto e nell'omertà la contestazione di Calvi sulla ritrattazione di Rolandi.
Così, con quella piccola frase in dialetto milanese, si decide il destino mio e dei miei compagni” .
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La notte delle coscienze ha un tempo unico
Ubbidendo alla logica del profitto a breve termine, il valore d’uso del lavoro cede il passo al suo valore di scambio. Per quanto l’oscurantismo della nostra epoca e la società dello spettacolo si sforzano di propagare l’istupidimento, l’insensibilità, il servilismo, la legge del più forte e del più furbo, niente potrà impedire al pensiero radicale di avanzare e di minare di nascosto lo spettacolo in cui la miseria esistenziale è elevata a virtù.
Da quando la tirannia del lavoro è stata assorbita dalla tirannia del denaro, un grande vuoto monetizzabile si è impadronito delle teste e dei corpi.
Quelli che incitano al lavoro sono gli stessi che lo distruggono.
Quelli che osano oggi glorificare il lavoro sono gli stessi che chiudono le imprese per giocarsele in borsa alla roulette delle speculazioni borsistiche.
La notte delle coscienze ha un tempo unico.
Non c’è riuscita possibile per le ideologie ammuffite e per le vecchie gomme sgonfie della religione rigonfiate in tutta fretta, rimesse in sesto, gettate in pasto a una disperazione che l’affarismo è bravo a rendere redditizia.
Nel bene e nel male è iniziata la fine dello sfruttamento della natura, la fine del lavoro, dello scambio, della predazione, della separazione da sé stessi, del sacrificio, dei sensi di colpa, della rinuncia al piacere, del feticismo del denaro, del potere, dell’autorità gerarchica, del disprezzo e della paura della donna, della subornazione del bambino, dell’ascendente intellettuale, del dispotismo militare e poliziesco, delle religioni, delle ideologie, della rimozione e dei suoi sfoghi mortiferi.
Non c’è che la volontà di vivere che permetta il predominio dell’essere sull’avere, del godimento sull’appropriazione, della creazione sul lavoro e dall’affinamento dei piaceri sulla redditività delle loro rappresentazioni mercantili.
Per questo dobbiamo scommettere sull’autonomia degli individui, sulla collettività che federandosi getteranno le basi di una società solidale e su quella facoltà creatrice che è in ciascuno e che la necessità di lavorare ha sempre ostacolato.
Da quando la tirannia del lavoro è stata assorbita dalla tirannia del denaro, un grande vuoto monetizzabile si è impadronito delle teste e dei corpi.
Quelli che incitano al lavoro sono gli stessi che lo distruggono.
Quelli che osano oggi glorificare il lavoro sono gli stessi che chiudono le imprese per giocarsele in borsa alla roulette delle speculazioni borsistiche.
La notte delle coscienze ha un tempo unico.
Non c’è riuscita possibile per le ideologie ammuffite e per le vecchie gomme sgonfie della religione rigonfiate in tutta fretta, rimesse in sesto, gettate in pasto a una disperazione che l’affarismo è bravo a rendere redditizia.
Nel bene e nel male è iniziata la fine dello sfruttamento della natura, la fine del lavoro, dello scambio, della predazione, della separazione da sé stessi, del sacrificio, dei sensi di colpa, della rinuncia al piacere, del feticismo del denaro, del potere, dell’autorità gerarchica, del disprezzo e della paura della donna, della subornazione del bambino, dell’ascendente intellettuale, del dispotismo militare e poliziesco, delle religioni, delle ideologie, della rimozione e dei suoi sfoghi mortiferi.
Non c’è che la volontà di vivere che permetta il predominio dell’essere sull’avere, del godimento sull’appropriazione, della creazione sul lavoro e dall’affinamento dei piaceri sulla redditività delle loro rappresentazioni mercantili.
Per questo dobbiamo scommettere sull’autonomia degli individui, sulla collettività che federandosi getteranno le basi di una società solidale e su quella facoltà creatrice che è in ciascuno e che la necessità di lavorare ha sempre ostacolato.
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AFORISMI - Emile Henry
Tra gli economi di se stessi ed i prodighi di se stessi credo che i prodighi siano i migliori calcolatori.
Più amiamo la libertà è l'uguaglianza, più dobbiamo odiare tutto quanto ci oppone alla libertà e all'uguaglianza degli uomini.
E senza perderci nel misticismo poniamo il problema sul terreno della realtà, e diciamo:
È vero che gli uomini sono solo il prodotto delle istituzioni; ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo in quanto vi sono uomini in carne e ossa per rappresentarle. C'è quindi un solo mezzo per colpire le istituzioni: colpire gli uomini.
Una volontà che va fino al suicidio può generare atti di abnegazione definitivi e senza speranza.
Uno dei primi insegnamenti dell'anarchia e questo: "sviluppa la tua vita in tutte le direzioni, opponi alla fittizia ricchezza dei capitalisti, la ricchezza reale degli individui possessori di intelligenza energia".
Amo tutti gli uomini nella loro umanità e per ciò che essi dovrebbero essere, ma il disprezzo per quello che sono.
Inoltre ho ben diritto di uscire dal teatro quando la commedia mi diventa odiosa e anche di sbattere la porta uscendo, col rischio di turbare la tranquillità di coloro che ne sono soddisfatti.
domenica 15 dicembre 2019
PIAZZA FONTANA Cinquant’anni fa - L’ultimo viaggio di Giuseppe Pinelli
Arrivato in via Scaldasole, Pinelli trova Ardau. Ma non è solo. Ci sono anche tre poliziotti. Li guida il commissario della squadra politica, Luigi Calabresi. «Ah, bene, sei qui anche tu», dice Calabresi a Pinelli, «vieni in questura, puoi seguirci con il tuo motorino». Ardau viene fatto salire sulla macchina della polizia. Durante il percorso Calabresi dice ad Ardau: «C’è una sicura matrice anarchica negli attentati». Poi chiede notizie di «quel pazzo criminale di Valpreda». E aggiunge: «Voi due siete due bravi ragazzi,ma dovete riconoscere che tipi loschi come quel pazzo di Valpreda con il suo codazzo di ragazzini, con la loro esaltazione criminale ci costringono a prendere seri provvedimenti che si ritorcono anche contro di voi, perché ora non possiamo più tollerare ciò che in passato abbiamo fin troppo tollerato. Dovete rendervi conto che ci sono stati quattordici morti e non venite a raccontare, tu o altri, che sono stati i fascisti. Questa è roba da anarchici, non c’è ombra di dubbio. E voi dovete aiutarci a trovarli e fermarli prima che possano uccidere ancora».
Questo è quanto Ardau ricorda di quel colloquio. Intanto Pinelli li segue. È il suo penultimo viaggio. Quello definitivo sarà da una finestra del quarto piano della questura di Milano in via Fatebenefratelli.
L’ultimo interrogatorio di Pinelli si svolge nella stanza di Calabresi, che sostiene di essere uscito poco prima di mezzanotte per informare dell’andamento dei colloqui i suoi superiori.
È la mezzanotte del 15 dicembre, il cronista dell’«Unità», Aldo Palumbo, ha lasciato la sala stampa della questura. È nel cortile quando sente un tonfo seguito da altri due. Qualcosa che sbatte contro i cornicioni dei vari piani. Accorre, vede un uomo per terra nell’aiuola. Corre a chiamare agenti e colleghi. È mezzanotte? Manca ancora qualche minuto? È già iniziato il 16 dicembre? Altro quesito irrisolto. L’ora esatta della caduta di Pinelli diventerà un altro tormentone in questa storia tormentata. Dalla questura è partita una richiesta di ambulanza prima che Pinelli cadesse o dopo? Mistero. Che pretende di risolvere Gerardo D’Ambrosio con la sua famosa sentenza del «malore attivo», che manda tutti assolti, ma riabilita pienamente Pinelli. Scrive D’ambrosio: «Pinelli accende la sigaretta che gli offre Mainardi. L’aria della stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare una boccata d’aria fresca, una improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». Tutto qui. D’Ambrosio non tiene in considerazione le enormi contraddizioni in cui sono caduti i poliziotti. Secondo loro Pinelli si è gettato dalla finestra gridando: «È la fine dell’anarchia ». I poliziotti accorrono per fermarlo, scossi dal suo grido. Panessa afferma di essere riuscito ad afferrare Pinelli, rimanendo con una scarpa in mano. Ma i giornalisti accorsi vicino al moribondo lo vedono con tutte e due le scarpe ai piedi.
Poco dopo l’una del 16 dicembre alcuni giornalisti bussano alla porta di casa dei Pinelli, la moglie viene informata che suo marito è caduto dalla finestra. Lei telefona a Calabresi: «Perché non mi avete avvertito?». Risposta del commissario: «Non avevamo il tempo, abbiamo molte altre cose da fare...».
Nel frattempo Pinelli è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli. Lì è arrivata la giornalista Camilla Cederna con i colleghi Corrado Stajano e Giampaolo Pansa. Cederna riesce a parlare con il medico di turno, Nazzareno Fiorenzano: «Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c’è niente da fare, durerà poco».
Questo è quanto Ardau ricorda di quel colloquio. Intanto Pinelli li segue. È il suo penultimo viaggio. Quello definitivo sarà da una finestra del quarto piano della questura di Milano in via Fatebenefratelli.
L’ultimo interrogatorio di Pinelli si svolge nella stanza di Calabresi, che sostiene di essere uscito poco prima di mezzanotte per informare dell’andamento dei colloqui i suoi superiori.
È la mezzanotte del 15 dicembre, il cronista dell’«Unità», Aldo Palumbo, ha lasciato la sala stampa della questura. È nel cortile quando sente un tonfo seguito da altri due. Qualcosa che sbatte contro i cornicioni dei vari piani. Accorre, vede un uomo per terra nell’aiuola. Corre a chiamare agenti e colleghi. È mezzanotte? Manca ancora qualche minuto? È già iniziato il 16 dicembre? Altro quesito irrisolto. L’ora esatta della caduta di Pinelli diventerà un altro tormentone in questa storia tormentata. Dalla questura è partita una richiesta di ambulanza prima che Pinelli cadesse o dopo? Mistero. Che pretende di risolvere Gerardo D’Ambrosio con la sua famosa sentenza del «malore attivo», che manda tutti assolti, ma riabilita pienamente Pinelli. Scrive D’ambrosio: «Pinelli accende la sigaretta che gli offre Mainardi. L’aria della stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare una boccata d’aria fresca, una improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». Tutto qui. D’Ambrosio non tiene in considerazione le enormi contraddizioni in cui sono caduti i poliziotti. Secondo loro Pinelli si è gettato dalla finestra gridando: «È la fine dell’anarchia ». I poliziotti accorrono per fermarlo, scossi dal suo grido. Panessa afferma di essere riuscito ad afferrare Pinelli, rimanendo con una scarpa in mano. Ma i giornalisti accorsi vicino al moribondo lo vedono con tutte e due le scarpe ai piedi.
Poco dopo l’una del 16 dicembre alcuni giornalisti bussano alla porta di casa dei Pinelli, la moglie viene informata che suo marito è caduto dalla finestra. Lei telefona a Calabresi: «Perché non mi avete avvertito?». Risposta del commissario: «Non avevamo il tempo, abbiamo molte altre cose da fare...».
Nel frattempo Pinelli è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli. Lì è arrivata la giornalista Camilla Cederna con i colleghi Corrado Stajano e Giampaolo Pansa. Cederna riesce a parlare con il medico di turno, Nazzareno Fiorenzano: «Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c’è niente da fare, durerà poco».
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giovedì 12 dicembre 2019
PIAZZA FONTANA cinquant'anni fa - Dodici dicembre 1969
A un tratto un forte e dirompente boato rompe quella strana ubriacatura invernale. Giunge dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana. Diciassette morti, ottantotto feriti.
Alle 16.37 siamo già vecchi.
Un’altra bomba viene collocata nella sede della Banca Commerciale di Milano. Possiede le stesse caratteristiche della prima ma non scoppia. Altri ordigni vengono piazzati nel passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro a Roma. Tredici feriti. Bombe di elevata potenza colpiscono l’Altare della Patria e l’ingresso del Museo del Risorgimento a Roma. Quattro feriti. Gli inquirenti indirizzano le indagini verso gli anarchici. Ottanta fermati e arrestati.
Tra loro ci sono il ferroviere Giuseppe Pinelli e il ballerino Pietro Valpreda.
La notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, Pino Pinelli cade dal quarto piano della Questura di Milano durante un interrogatorio.
Anni dopo i giudici scriveranno che Pinelli fu colpito da un malore attivo.
Valpreda viene rinchiuso in carcere fino al 1972. Innocente.
La pista anarchica viene suggerita e orchestrata dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno per depistare le inchieste.
Passano gli anni e la magistratura imbocca la pista giusta. Le valigette che contengono l’esplosivo del ’69 sono state acquistate da Franco Freda e Giovanni Ventura, fascisti di Padova.
Emerge un piano che deve sfociare in un tentativo di colpo di Stato militare.
(Tratto dalla prefazione “Attentato Imminente” di Daniele Bianchessi)
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Pietro Valpreda
QANA Patty Smith
nel villaggio
né un essere umano
né una pietra
non c’è nessuno
nel villaggio
i bambini sono partiti
e una madre si dondola
per addormentarsi
fate crollare tutto
fatela piangere
i morti giacevano in strane forme
Alcuni sono sepolti
altri strisciano all’aperto
non le ha fatte un bambino
le macerie urlanti
e una madre si dondola
per addormentarsi
fate crollare tutto
fatela piangere
i morti giacevano in strane forme
Bamboline afflosciate
incrostate nel fango
piccole, piccole mani
trovate nella strada
e le loro chiacchiere
bersagli di guerra
che bella frase
bombe che cadono
gli americani hanno creato
il nuovo Medio Oriente
e quella lì, la Rice, starnazza
i morti giacevano in strane forme
piccoli corpi
piccoli corpi
legati mani e piedi
avvolti nella plastica
disposti per strada
il nuovo Medio Oriente
quella lì, la Rice, starnazza
i morti giacevano in strane forme
Acqua in vino
vino in sangue
ah, Qana,
il miracolo
è l’amore.
29 luglio 2006
Un'economia municipalizzata è un'economia morale
Qualsiasi movimento rivoluzionario comunista libertario deve, a mio avviso, riconoscere l'importanza della municipalità come il Locus di nuovi problemi che riguardano più classi e che non possono essere ridotti semplicemente alla lotta tra lavoro salariato è capitale. I problemi del degrado ambientale riguardano tutti i membri della comunità; così come i problemi delle ingiustizie sociali ed economiche; i problemi di salute, istruzione, condizioni sanitarie e l'incubo della crescita insensata. Il capitalismo e un sistema espansivo compulsivo la moderna economia di mercato impone che le imprese debbano "crescere o morire" nulla impedisce al capitalismo di industrializzare tutto il pianeta espandendosi sempre di più ogni volta che è pronto a farlo. Solo la completa ricostruzione della società e dell'economia può porre fine ai dilemmi sollevati dalla globalizzazione: lo sfruttamento dei Lavoratori e l'aumento del potere delle aziende fino al punto di minacciare la sopravvivenza di gran parte del nostro pianeta. Solo una politica economica di base - fondata su un progetto e un movimento municipalista libertario - può offrire un'alternativa importante ed è proprio una alternativa in grado di arrestare l'impatto della globalizzazione, ciò che molte persone cercano oggi.
il capitale globale a causa della sua enormità può essere sradicato solo con un movimento municipalista libertario al centro della società. Deve essere eroso dalle moltitudini che mobilitate da un movimento di base, sfidino la sovranità del capitale globale sulle loro vite e cerchino di sviluppare alternative economiche locali e regionali alle sue operazioni industriali
Un'economia municipalizzata - lenta come può essere nel suo divenire - è un'economia morale che privilegia la qualità dei suoi prodotti e la loro produzione a basso costo; può In definitiva sperare di sovvertire un economia d'azienda in cui il successo è misurato interamente dai profitti piuttosto che dalla qualità dei prodotti.
La società capitalista ha conseguenze non solo sulle relazioni economiche e sociali, ma anche sulle idee e le tradizioni intellettuali come sulla storia, Le frammenta fino a quando le conoscenze e perfino la realtà si confondono, spogliate di qualsiasi distinzione, specificità e articolazione.
Il municipalismo libertario deve essere concepito come un processo, una pratica paziente che inizialmente avrà un successo limitato e anche allora solo in aree selezionate che forniranno esempi delle possibilità che si potrebbero ottenere se adottate su larga scala non cresceremo una solita municipalista libertaria dall'oggi al domani. Pazienza, costanza e impegno sono qualità che i nostri vecchi Compagni rivoluzionari hanno coltivato assiduamente.
il capitale globale a causa della sua enormità può essere sradicato solo con un movimento municipalista libertario al centro della società. Deve essere eroso dalle moltitudini che mobilitate da un movimento di base, sfidino la sovranità del capitale globale sulle loro vite e cerchino di sviluppare alternative economiche locali e regionali alle sue operazioni industriali
Un'economia municipalizzata - lenta come può essere nel suo divenire - è un'economia morale che privilegia la qualità dei suoi prodotti e la loro produzione a basso costo; può In definitiva sperare di sovvertire un economia d'azienda in cui il successo è misurato interamente dai profitti piuttosto che dalla qualità dei prodotti.
La società capitalista ha conseguenze non solo sulle relazioni economiche e sociali, ma anche sulle idee e le tradizioni intellettuali come sulla storia, Le frammenta fino a quando le conoscenze e perfino la realtà si confondono, spogliate di qualsiasi distinzione, specificità e articolazione.
Il municipalismo libertario deve essere concepito come un processo, una pratica paziente che inizialmente avrà un successo limitato e anche allora solo in aree selezionate che forniranno esempi delle possibilità che si potrebbero ottenere se adottate su larga scala non cresceremo una solita municipalista libertaria dall'oggi al domani. Pazienza, costanza e impegno sono qualità che i nostri vecchi Compagni rivoluzionari hanno coltivato assiduamente.
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giovedì 5 dicembre 2019
PIAZZA FONTANA cinquant'anni fa - Il colpo di stato
Dopo la strage, nei piani degli alti strateghi era previsto che i funerali delle vittime degenerassero in una giornata di scontri e violenze, scatenando provocatori e bande fasciste e innescando episodi di guerriglia urbana. Radio e televisione avrebbero poi opportunamente ripreso e amplificato gli efferati eventi, così da suscitare quell'invocazione di autorità e ordine che avrebbe legittimato la svolta autoritaria.
L'ispirazione veniva dagli scontri e dagli atti di violenza già sperimentati su scala minore dai gruppi della destra estrema il mese precedente, il giorno dei funerali a Milano dell'agente Annarumma.
La mattina del 15 dicembre i funerali delle vittime si svolgono in una piazza del Duomo che fin dalle prime ore del mattino è presidiata da centinaia di operai ed è gremita da una folla vigile anche nelle strade adiacenti. In una giornata fredda e cupa, quattordici bare sfilano tra le immense ali di una folla attenta, tesa, in un silenzio impressionante e composto, quasi minaccioso — allora non si applaudivano i morti. Quelle migliaia di donne e uomini che secondo i piani sarebbero dovute restare chiuse in casa tremanti di paura sono tutte lì, nessuno le ha convocate, non c'è un cartello, un manifesto, ciascuno è venuto di sua iniziativa ed è come se una coscienza collettiva avesse avvertito il pericolo e si fosse stretta alle vittime, per dimostrare che esiste una risposta democratica che non ha paura, che ha colto il messaggio provocatorio della strage e che non intende accettare soprusi. Non è retorica affermare che fu quella folla imponente e muta, quel popolo democratico, che salvò quel giorno questo paese, quando già era sulla soglia del baratro.
Secondo una versione ormai accreditata vi erano, tra i fautori del colpo di stato appoggiato dagli Usa, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (Psdi) e gli uomini a lui vicini, la destra democristiana dell'allora presidente del Consiglio Mariano Rumor e tutte le componenti più o meno dichiaratamente fasciste, altri erano più possibilisti mentre era contraria la corrente Dc dell'on. Moro, che fin dai tempi del suo primo governo con i socialisti, nel 1963, perseguiva un'ipotesi di centro-sinistra. L'ala dura era la più consistente e si riteneva in grado di imporre le proprie scelte. Ma fu di fronte a quel silenzio agghiacciante, a quella inattesa dimostrazione di coesione e fermezza da parte della popolazione milanese nel giorno dei funerali, accompagnata anche da una esplicita esibizione di forza da parte dei servizi
d'ordine e dei presidi che quel giorno partiti, sindacati e movimenti di sinistra avevano predisposto — il golpe era nell'aria — che venne a più miti consigli la componente golpista. Fu lo stesso Presidente del Consiglio Mariano Rumor, che a Milano assistette ai funerali, a rimanere turbato e intimorito dalla forza di quella manifestazione che si dissociò dal piano, non consentendo al presidente Saragat di dichiarare lo stato di crisi, sciogliere le camere e mettere in atto il progettato "golpe istituzionale". Si tenga anche presente che il quotidiano inglese «The Observer», di fatto portavoce del governo di Sua Maestà, aveva pubblicato già il 7 dicembre un documento che attestava intese tra i colonnelli greci ed esponenti politici e militari italiani e il 17 dicembre, quattro giorni dopo la strage, indirizzerà esplicitamente le sue accuse alla destra e ai servizi, con un editoriale che denunciava il piano eversivo come una "strategy of tension", impiegando per la prima volta quella definizione destinata a entrare nella storia. Il documento, palesemente opera dell'intelligent britannica dimostra una spaccatura strategica sull'Italia tra i servizi segreti americani e quelli inglesi.
Lo stesso 17 dicembre il SID, il servizio segreto militare, aveva ricevuto dal suo raggruppamento di Roma un comunicato in cui si indirizzavano esplicitamente i sospetti verso un'agenzia d'oltralpe chiamata "Aginter Presse", organizzazione fascista guidata da tale Yves Guérin Sérac (al secolo Yves Guillou). Quel documento, che avrebbe potuto allora cambiare il corso degli eventi, sarà nascosto alla magistratura che ne verrà a conoscenza solo nel marzo 1973.
L'ispirazione veniva dagli scontri e dagli atti di violenza già sperimentati su scala minore dai gruppi della destra estrema il mese precedente, il giorno dei funerali a Milano dell'agente Annarumma.
La mattina del 15 dicembre i funerali delle vittime si svolgono in una piazza del Duomo che fin dalle prime ore del mattino è presidiata da centinaia di operai ed è gremita da una folla vigile anche nelle strade adiacenti. In una giornata fredda e cupa, quattordici bare sfilano tra le immense ali di una folla attenta, tesa, in un silenzio impressionante e composto, quasi minaccioso — allora non si applaudivano i morti. Quelle migliaia di donne e uomini che secondo i piani sarebbero dovute restare chiuse in casa tremanti di paura sono tutte lì, nessuno le ha convocate, non c'è un cartello, un manifesto, ciascuno è venuto di sua iniziativa ed è come se una coscienza collettiva avesse avvertito il pericolo e si fosse stretta alle vittime, per dimostrare che esiste una risposta democratica che non ha paura, che ha colto il messaggio provocatorio della strage e che non intende accettare soprusi. Non è retorica affermare che fu quella folla imponente e muta, quel popolo democratico, che salvò quel giorno questo paese, quando già era sulla soglia del baratro.
Secondo una versione ormai accreditata vi erano, tra i fautori del colpo di stato appoggiato dagli Usa, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (Psdi) e gli uomini a lui vicini, la destra democristiana dell'allora presidente del Consiglio Mariano Rumor e tutte le componenti più o meno dichiaratamente fasciste, altri erano più possibilisti mentre era contraria la corrente Dc dell'on. Moro, che fin dai tempi del suo primo governo con i socialisti, nel 1963, perseguiva un'ipotesi di centro-sinistra. L'ala dura era la più consistente e si riteneva in grado di imporre le proprie scelte. Ma fu di fronte a quel silenzio agghiacciante, a quella inattesa dimostrazione di coesione e fermezza da parte della popolazione milanese nel giorno dei funerali, accompagnata anche da una esplicita esibizione di forza da parte dei servizi
d'ordine e dei presidi che quel giorno partiti, sindacati e movimenti di sinistra avevano predisposto — il golpe era nell'aria — che venne a più miti consigli la componente golpista. Fu lo stesso Presidente del Consiglio Mariano Rumor, che a Milano assistette ai funerali, a rimanere turbato e intimorito dalla forza di quella manifestazione che si dissociò dal piano, non consentendo al presidente Saragat di dichiarare lo stato di crisi, sciogliere le camere e mettere in atto il progettato "golpe istituzionale". Si tenga anche presente che il quotidiano inglese «The Observer», di fatto portavoce del governo di Sua Maestà, aveva pubblicato già il 7 dicembre un documento che attestava intese tra i colonnelli greci ed esponenti politici e militari italiani e il 17 dicembre, quattro giorni dopo la strage, indirizzerà esplicitamente le sue accuse alla destra e ai servizi, con un editoriale che denunciava il piano eversivo come una "strategy of tension", impiegando per la prima volta quella definizione destinata a entrare nella storia. Il documento, palesemente opera dell'intelligent britannica dimostra una spaccatura strategica sull'Italia tra i servizi segreti americani e quelli inglesi.
Lo stesso 17 dicembre il SID, il servizio segreto militare, aveva ricevuto dal suo raggruppamento di Roma un comunicato in cui si indirizzavano esplicitamente i sospetti verso un'agenzia d'oltralpe chiamata "Aginter Presse", organizzazione fascista guidata da tale Yves Guérin Sérac (al secolo Yves Guillou). Quel documento, che avrebbe potuto allora cambiare il corso degli eventi, sarà nascosto alla magistratura che ne verrà a conoscenza solo nel marzo 1973.
(Tratto da Pinelli la finestra è ancora aperta Gabriele Fuga - Enrico Maltini)
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LA CALIFFA di Alberto Bevilacqua
La "Califfa" nomignolo che in Emilia viene attribuito alla donna autoritaria e spregiudicata.
Doberdò è uno scaltro e maturo industriale, un "self-made-man" che si è costruito un piccolo impero economico in una cittadina della provincia emiliana. Per solidarietà con gli operai licenziati da un'altra impresa fallita, le maestranze di Doberdò occupano gli stabilimenti. Nel fronteggiare la situazione, il padrone si mostra fermo, ma anche disponibile al dialogo; e quando una delle sue dipendenti, la bella e focosa Irene, detta "la Califfa", con un gesto volgare gli esprime pubblicamente il proprio disprezzo, egli si mostra magnanimo per indurre gli operai incerti tra le direttive dei capi sindacali e gli incitamenti alla violenza di estremisti facinorosi a riprendere il lavoro. Irene è una donna indipendente e spregiudicata, rimasta vedova quando le hanno ucciso il marito durante una dimostrazione, e risoluta a combattere l'odiato padrone. Si lascia tuttavia, a poco a poco, ammorbidire e conquistare da Doberdò, negli incontri che i due hanno in fabbrica e poi anche nella villa dell'industriate. Irene diventa l'amante di Doberdò e induce gli operai ad ascoltare le proposte di rinnovamento e di partecipazione avanzate dall'industriale. I disordini, però, continuano; anche perché il progressismo dell'industriale non è ben visto dai suoi colleghi, che minacciano di esautorarlo dalla direzione della loro associazione. Così mentre da un lato Doberdò ritrova nell'amore per Irene la vitalità che aveva perduto nel monotono "ménage" con una moglie banale e un figlio capellone, dall'altro cerca di non farsi sfuggire di mano la situazione in fabbrica. Ma mentre, all'alba, rientra da un ennesimo incontro con l'amante, è assalito e ucciso da sicari, che ne abbandonano il corpo nei pressi della fabbrica. Ancora una volta Irene ha perduto così il suo amore.
La Califfa, o dell'ambiguità, è l'opera prima cinematografica dello scrittore Alberto Bevilacqua. Girato appena dopo l'autunno caldo è il primo film a soggetto direttamente collegabile a quei mesi drammatici, tratto dal suo terzo libro, edito nel 1964, è ambientato a Parma, città natale di Bevilacqua.
Il linguaggio di Bevilacqua è rapido e asciutto. Probabilmente l’esperienza cinematografica gioverà al narratore, abbreviando la distanza dalle cose. Né gli attori lasciano a desiderare: Ugo Tognazzi è un perfetto imprenditore figlio di contadini che, grazie all’amore, passa dal pragmatismo alla sfida romantica nei confronti del potere. Romy Schneider è di una bellezza sconvolgente, fotografata in stupendi primi piani, tra le cariche della polizia e il sangue che scorre. Un personaggio adatto alle sue caratteristiche femminili, una donna forte e innamorata, disposta a mettersi in gioco. Bevilacqua racconta la società italiana di fine anni Sessanta con gli imprenditori d’assalto, le fabbriche che chiudono, gli operai che occupano e chiedono rispetto per il lavoro. Vediamo le cariche della polizia, gli imprenditori suicidi dopo il fallimento, le proteste di piazza. Il quadro sociale è accompagnato da un’analisi spietata dei rapporti borghesi tra moglie e marito, la passione che si stempera, il tradimento, ma pure il contrasto generazionale padre – figlio non sfugge alla critica. L’operaia ribelle e l’imprenditore hanno in comune il coraggio, le origini umili, la voglia di credere in un progetto e l’illusione di cambiare il mondo. Ma sarà la cruda realtà a vincere sui loro sogni.
La politica di avvicinamento di Doberdò verso i lavoratori gli procura prima l'irritazione e poi l'odio dell'Unione degli Industriali della Regione i quali ammoniscono l'ormai ex amico a desistere dalle sue iniziative. Doberdò non accetta imposizioni e in tal modo firma la sua condanna: viene preso a fucilate e trascinato a morire dinanzi alla sua fabbrica. Gli operai nel film sono mostrati come una sparuta e odiosa minoranza di teppisti, violenti, pronti magari ad uccidere, ma poi, vista la fine di Doberdò ucciso dagli industriali, sono allora proprio queste facce patibolari ad avere ragione, a non voler credere e accettare le «isole» di democrazia, a voler generalizzare la lotta, a voler continuare lo sciopero anche se hanno ottenuto la cogestione, infatti Doberdò è stato eliminato dagli industriali retrivi non perché questi non sono ancora maturi al salto di qualità, ma perché egli ha condotto la sua lotta da solo, dall'alto, paternalisticamente, svincolato da una ideologia comune con gli operai, da una vera coscienza proletaria e rivoluzionaria.
Doberdò è uno scaltro e maturo industriale, un "self-made-man" che si è costruito un piccolo impero economico in una cittadina della provincia emiliana. Per solidarietà con gli operai licenziati da un'altra impresa fallita, le maestranze di Doberdò occupano gli stabilimenti. Nel fronteggiare la situazione, il padrone si mostra fermo, ma anche disponibile al dialogo; e quando una delle sue dipendenti, la bella e focosa Irene, detta "la Califfa", con un gesto volgare gli esprime pubblicamente il proprio disprezzo, egli si mostra magnanimo per indurre gli operai incerti tra le direttive dei capi sindacali e gli incitamenti alla violenza di estremisti facinorosi a riprendere il lavoro. Irene è una donna indipendente e spregiudicata, rimasta vedova quando le hanno ucciso il marito durante una dimostrazione, e risoluta a combattere l'odiato padrone. Si lascia tuttavia, a poco a poco, ammorbidire e conquistare da Doberdò, negli incontri che i due hanno in fabbrica e poi anche nella villa dell'industriate. Irene diventa l'amante di Doberdò e induce gli operai ad ascoltare le proposte di rinnovamento e di partecipazione avanzate dall'industriale. I disordini, però, continuano; anche perché il progressismo dell'industriale non è ben visto dai suoi colleghi, che minacciano di esautorarlo dalla direzione della loro associazione. Così mentre da un lato Doberdò ritrova nell'amore per Irene la vitalità che aveva perduto nel monotono "ménage" con una moglie banale e un figlio capellone, dall'altro cerca di non farsi sfuggire di mano la situazione in fabbrica. Ma mentre, all'alba, rientra da un ennesimo incontro con l'amante, è assalito e ucciso da sicari, che ne abbandonano il corpo nei pressi della fabbrica. Ancora una volta Irene ha perduto così il suo amore.
La Califfa, o dell'ambiguità, è l'opera prima cinematografica dello scrittore Alberto Bevilacqua. Girato appena dopo l'autunno caldo è il primo film a soggetto direttamente collegabile a quei mesi drammatici, tratto dal suo terzo libro, edito nel 1964, è ambientato a Parma, città natale di Bevilacqua.
Il linguaggio di Bevilacqua è rapido e asciutto. Probabilmente l’esperienza cinematografica gioverà al narratore, abbreviando la distanza dalle cose. Né gli attori lasciano a desiderare: Ugo Tognazzi è un perfetto imprenditore figlio di contadini che, grazie all’amore, passa dal pragmatismo alla sfida romantica nei confronti del potere. Romy Schneider è di una bellezza sconvolgente, fotografata in stupendi primi piani, tra le cariche della polizia e il sangue che scorre. Un personaggio adatto alle sue caratteristiche femminili, una donna forte e innamorata, disposta a mettersi in gioco. Bevilacqua racconta la società italiana di fine anni Sessanta con gli imprenditori d’assalto, le fabbriche che chiudono, gli operai che occupano e chiedono rispetto per il lavoro. Vediamo le cariche della polizia, gli imprenditori suicidi dopo il fallimento, le proteste di piazza. Il quadro sociale è accompagnato da un’analisi spietata dei rapporti borghesi tra moglie e marito, la passione che si stempera, il tradimento, ma pure il contrasto generazionale padre – figlio non sfugge alla critica. L’operaia ribelle e l’imprenditore hanno in comune il coraggio, le origini umili, la voglia di credere in un progetto e l’illusione di cambiare il mondo. Ma sarà la cruda realtà a vincere sui loro sogni.
La politica di avvicinamento di Doberdò verso i lavoratori gli procura prima l'irritazione e poi l'odio dell'Unione degli Industriali della Regione i quali ammoniscono l'ormai ex amico a desistere dalle sue iniziative. Doberdò non accetta imposizioni e in tal modo firma la sua condanna: viene preso a fucilate e trascinato a morire dinanzi alla sua fabbrica. Gli operai nel film sono mostrati come una sparuta e odiosa minoranza di teppisti, violenti, pronti magari ad uccidere, ma poi, vista la fine di Doberdò ucciso dagli industriali, sono allora proprio queste facce patibolari ad avere ragione, a non voler credere e accettare le «isole» di democrazia, a voler generalizzare la lotta, a voler continuare lo sciopero anche se hanno ottenuto la cogestione, infatti Doberdò è stato eliminato dagli industriali retrivi non perché questi non sono ancora maturi al salto di qualità, ma perché egli ha condotto la sua lotta da solo, dall'alto, paternalisticamente, svincolato da una ideologia comune con gli operai, da una vera coscienza proletaria e rivoluzionaria.
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MESSAGGIO DEGLI IROCHESI AL MONDO OCCIDENTALE
Gli Hau de no sau nee o Confederazione Irochese delle Sei Nazioni sono su questa Terra dall'inizio della memoria umana. La nostra cultura è tra le più antiche che ancora esistono al mondo. Noi ricordiamo ancora i primi atti del comportamento umano. Noi ricordiamo le istruzioni originarie del Creatori della vita a questo luogo che noi chiamiamo Madre Terra. Noi siamo i guardiani spirituali di questo luogo. Noi siamo il vero popolo. Al principio c'è stato detto che gli esseri umani che camminano sulla terra sono stati dotati di tutto ciò che loro necessario per vivere. Abbiamo imparato ad amarci gli uni con gli altri, ad avere un grande rispetto per tutti gli esseri della terra.
Ci è stato mostrato che la nostra vita esiste grazie alla vita degli alberi, che il nostro benessere dipende dalla vita vegetale, che noi siamo parenti più prossimi degli esseri a quattro zampe.
Secondo noi la coscienza spirituale è la forma più compiuta della politica. La nostra politica è un modo di vita. Noi pensiamo che tutto ciò che vive sia dovuto ad esseri spirituali. Gli spiriti possono esprimersi sotto forma di energia tradotta in materia. Un filo d'erba è una forma di energia espressa in materia: - la materia erba -.
Tutte le cose del mondo - L' Universo spirituale -, si manifesta all'uomo sotto la forma della Creazione, la Creazione che sorregge la vita.
Noi pensiamo che l'uomo sia un essere reale, una parte della creazione, e che suo dovere sia di mantenere la vita in unione con gli altri esseri. E' per questo che noi ci chiamiamo Ongwhehon-whe - il vero Popolo - Le istruzione originarie ci raccomandano per noi che camminiamo sulla terra, di avere un grande rispetto, una grande affezione e gratitudine verso tutti gli spiriti che mantengono la vita.
Ci è stato mostrato che la nostra vita esiste grazie alla vita degli alberi, che il nostro benessere dipende dalla vita vegetale, che noi siamo parenti più prossimi degli esseri a quattro zampe.
Secondo noi la coscienza spirituale è la forma più compiuta della politica. La nostra politica è un modo di vita. Noi pensiamo che tutto ciò che vive sia dovuto ad esseri spirituali. Gli spiriti possono esprimersi sotto forma di energia tradotta in materia. Un filo d'erba è una forma di energia espressa in materia: - la materia erba -.
Tutte le cose del mondo - L' Universo spirituale -, si manifesta all'uomo sotto la forma della Creazione, la Creazione che sorregge la vita.
Noi pensiamo che l'uomo sia un essere reale, una parte della creazione, e che suo dovere sia di mantenere la vita in unione con gli altri esseri. E' per questo che noi ci chiamiamo Ongwhehon-whe - il vero Popolo - Le istruzione originarie ci raccomandano per noi che camminiamo sulla terra, di avere un grande rispetto, una grande affezione e gratitudine verso tutti gli spiriti che mantengono la vita.
giovedì 28 novembre 2019
Vivere controcorrente la vita
Vivere controcorrente la vita, questa è la norma. Pertanto il rovesciamento di prospettiva si opera sotto ai nostri occhi, scombussolando gli architetti dell’inversione. Esso segna la fine dell’era economica alla soglia dell’autogestione generalizzata. Tiene occupato il cuore di tutti e sta al centro delle condizioni storiche. Fonda sulla gratuità dei godimenti il sabotaggio del circuito mercantile che paralizza i muscoli e spezza i nervi per inibire il desiderio in nome del lavoro, del dovere, della costrizione, dello scambio, del senso di colpa, del controllo intellettuale, della volontà di potenza. In esso, ciò che uccide con le migliori delle ragioni, si separa da quello che spinge a vivere senza ragioni. In esso, il rifiuto della sopravvivenza è vinto dall’affermazione della vita insaziabile.
La rivoluzione non è più nel rifiuto della sopravvivenza, ma in un godimento di sé che tutto congiura ad interdire, a cominciare dai sostenitori del rifiuto. Contro la spettacolarizzazione del corpo e dei desideri, la sola arma alla portata di tutti è il piacere senza riserve e senza contropartita.
L’emancipazione non ha peggior nemico di chi pretende di cambiare la società e non smette di dissimulare, esorcizzandolo, il vecchio mondo che si porta dentro. Procuratori della rivoluzione, sniffatori di radicalità, bottegai del merito e del demerito, questi sono gli avversari corazzati di nevrosi contro cui va a urtare, con incredibile violenza, tutto quello che comincia a muoversi al ritmo di una vita senza coercizioni.
La rivoluzione non è più nel rifiuto della sopravvivenza, ma in un godimento di sé che tutto congiura ad interdire, a cominciare dai sostenitori del rifiuto. Contro la spettacolarizzazione del corpo e dei desideri, la sola arma alla portata di tutti è il piacere senza riserve e senza contropartita.
L’emancipazione non ha peggior nemico di chi pretende di cambiare la società e non smette di dissimulare, esorcizzandolo, il vecchio mondo che si porta dentro. Procuratori della rivoluzione, sniffatori di radicalità, bottegai del merito e del demerito, questi sono gli avversari corazzati di nevrosi contro cui va a urtare, con incredibile violenza, tutto quello che comincia a muoversi al ritmo di una vita senza coercizioni.
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Sèbastien Faure
Nasce il 6 gennaio del 1858 in una ricca famiglia cattolica e viene educato dai gesuiti dapprima a Saint-Etienne e poi, nel 1874, all’età di sedici anni, a Clermont-Ferrand. Dopo diciassette mesi e prima di pronunciare i voti una grave malattia del padre lo riporta alla vita civile. Lascia il collegio e l’ordine religioso per assumersi la responsabilità della famiglia a seguito della morte del padre. Inizia a lavorare in una compagnia di assicurazioni e a contatto con la vita e i problemi quotidiani dell’esistenza civile, Faure comincia a interessarsi a numerosi problemi di ordine filosofico, politico e scientifico aprendo la mente a nuovi e affascinanti orizzonti. Dopo una altrettanto deludente esperienza militare, e alla fine di un soggiorno in Inghilterra, egli è ormai pronto per iniziare la sua straordinaria vita di militante e di rivoluzionario. Il vero scopo e l’unico interesse del giovane Faure diventa ora l’attività politico-sociale e dopo aver brevemente aderito al partito «Guesdiste» passa nelle file del movimento anarchico. In questo periodo rompe con la propria famiglia e si separa dalla moglie che non riesce a tollerare un simile cambiamento.
Nel 1888 si trasferisce a Parigi dove approfondisce la sua conoscenza dell’anarchismo attraverso la lettura, in particolare, dei testi di Elisée Reclus e Pëtr Kropotkin e con la frequentazione dei circoli e dei militanti dell’anarchismo francese. Dotato di una capacità oratoria poco comune, per non dire straordinaria, gira la Francia intera per diffondere il pensiero anarchico rivolgendo le sue critiche particolarmente alla lotta contro lo Stato, il capitalismo e soprattutto la religione. I titoli delle sue conferenze hanno spesso un significato provocatorio: Dodici prove dell’inesistenza di dio, Il fallimento del cristianesimo, La dittatura della borghesia, Né comandare né obbedire, La putredine parlamentare, ecc.
I suoi debutti sono alquanto difficili ma il pubblico presente alle manifestazioni, che lo vedono protagonista e oratore principale, si allarga sempre più tanto che vengono organizzate delle vere e proprie tournées che ottengono clamorosi successi di partecipazione tanto da diventare eventi di grande risonanza e non solo locale. I testi delle sue conferenze diventano opuscoli di propaganda ampiamente diffusi e divulgati. Con la sua azione egli convince e avvicina agli ideali dell’anarchismo numerosi uomini e donne e si conquista il rispetto e l’ammirazione di molti avversari. Naturalmente non mancano le attenzioni della polizia che perquisisce più volte le sue abitazioni, mandandolo in prigione. Particolarmente nota per la vasta eco ottenuta è il giro di conferenze che Faure compie assieme a Louise Michel.
Nel 1894 viene incriminato nel «processo dei Trenta». Nel 1895 fonda con la Michel il periodico settimanale «Le Libertaire» e per primo utilizza questo termine per definire gli anarchici. A partire dal 1898 si dedica quasi totalmente alla difesa del capitano ebreo Dreyfus e alla campagna in difesa che ne consegue. Dopo aver fondato altri fogli anarchici in varie parti della Francia aderisce, nei primi anni del ventesimo secolo alle tesi neo-malthusiane. Ma a partire dal 1903 egli dedica tutta la sua vita, le sue energie e i suoi sforzi a realizzare un progetto a cui tiene particolarmente: educare i ragazzi secondo principi libertari. Fonda infatti «La Ruche», che sarà attiva dal 1904 al 1917 fino a quando i contraccolpi della prima guerra mondiale non metteranno fine a questa straordinaria esperienza. Durante il periodo bellico egli si impegna attivamente a sostenere le idee pacifiste e antimilitariste. Dal 1926 al 1934 dà alla luce l’unico esempio di Enciclopedia anarchica con la collaborazione di numerosi studiosi e militanti. Durante l’epopea tragica ed esaltante della rivoluzione spagnola la sua tarda età non gli impedisce di portare la sua attiva solidarietà ai combattenti per la rivoluzione sociale della CNT-FAI. Si spegne a Royan il 14 luglio del 1942.
Nel 1888 si trasferisce a Parigi dove approfondisce la sua conoscenza dell’anarchismo attraverso la lettura, in particolare, dei testi di Elisée Reclus e Pëtr Kropotkin e con la frequentazione dei circoli e dei militanti dell’anarchismo francese. Dotato di una capacità oratoria poco comune, per non dire straordinaria, gira la Francia intera per diffondere il pensiero anarchico rivolgendo le sue critiche particolarmente alla lotta contro lo Stato, il capitalismo e soprattutto la religione. I titoli delle sue conferenze hanno spesso un significato provocatorio: Dodici prove dell’inesistenza di dio, Il fallimento del cristianesimo, La dittatura della borghesia, Né comandare né obbedire, La putredine parlamentare, ecc.
I suoi debutti sono alquanto difficili ma il pubblico presente alle manifestazioni, che lo vedono protagonista e oratore principale, si allarga sempre più tanto che vengono organizzate delle vere e proprie tournées che ottengono clamorosi successi di partecipazione tanto da diventare eventi di grande risonanza e non solo locale. I testi delle sue conferenze diventano opuscoli di propaganda ampiamente diffusi e divulgati. Con la sua azione egli convince e avvicina agli ideali dell’anarchismo numerosi uomini e donne e si conquista il rispetto e l’ammirazione di molti avversari. Naturalmente non mancano le attenzioni della polizia che perquisisce più volte le sue abitazioni, mandandolo in prigione. Particolarmente nota per la vasta eco ottenuta è il giro di conferenze che Faure compie assieme a Louise Michel.
Nel 1894 viene incriminato nel «processo dei Trenta». Nel 1895 fonda con la Michel il periodico settimanale «Le Libertaire» e per primo utilizza questo termine per definire gli anarchici. A partire dal 1898 si dedica quasi totalmente alla difesa del capitano ebreo Dreyfus e alla campagna in difesa che ne consegue. Dopo aver fondato altri fogli anarchici in varie parti della Francia aderisce, nei primi anni del ventesimo secolo alle tesi neo-malthusiane. Ma a partire dal 1903 egli dedica tutta la sua vita, le sue energie e i suoi sforzi a realizzare un progetto a cui tiene particolarmente: educare i ragazzi secondo principi libertari. Fonda infatti «La Ruche», che sarà attiva dal 1904 al 1917 fino a quando i contraccolpi della prima guerra mondiale non metteranno fine a questa straordinaria esperienza. Durante il periodo bellico egli si impegna attivamente a sostenere le idee pacifiste e antimilitariste. Dal 1926 al 1934 dà alla luce l’unico esempio di Enciclopedia anarchica con la collaborazione di numerosi studiosi e militanti. Durante l’epopea tragica ed esaltante della rivoluzione spagnola la sua tarda età non gli impedisce di portare la sua attiva solidarietà ai combattenti per la rivoluzione sociale della CNT-FAI. Si spegne a Royan il 14 luglio del 1942.
Piazza Fontana cinquant'anni fa - Colpevoli gli anarchici!
Perché gli anarchici? Perché gli anarchici rappresentano la parte più debole dello schieramento di sinistra, perché priva di protezione, senza amici, di fatto isolata politicamente. Inoltre sono pressoché privi di organizzazione, e seguaci di una teoria politica articolata in varie tendenze, alcune delle quali sono spesso indefinibili o mal definite: due caratteristiche che permettono ogni tentativo di infiltrazione e di provocazione al loro interno. Esiste poi la possibilità di utilizzare la loro firma, i loro simboli in tutta una serie di attentati i cui obiettivi (chiese, banche, caserme, ecc.) non sarebbero attribuibili a nessun’altra forza di sinistra, sia parlamentare che extraparlamentare. Da non sottovalutare il valore simbolico negativo che essi incarnano agli occhi della maggioranza dell’opinione pubblica, la più sprovveduta, facile preda di ogni tentativo di manipolazione "culturale": per l’italiano medio, gli anarchici rappresentano le forze scatenate e disgregatrici dello Stato, il rifiuto delle istituzioni e di ogni valore borghese. senza idee o alternative precise; "fanno paura", una paura generica e indefinibile, che di conseguenza impone il ricorso a forze che siano in grado di ristabilire l’ordine e l’autorità minacciati dal nichilismo.
Infine gli anarchici, abilmente "pubblicizzati" da una massiccia campagna di informazione tendente a esagerare e a mitizzare questo loro ruolo negativo, consentono anche una escalation della repressione che si attui in modo subdolo e strisciante, che coinvolga lentamente, usando i tempi lunghi, le stesse forze della sinistra più solide e organizzate (sindacati e PCI), senza provocare traumi né nell’opinione pubblica moderata né nelle forze politiche costituzionali.
Per capire la complessità della manovra che si andava preparando sulle spalle degli anarchici. serve rileggere, fra i tanti, questo brano di un articolo della Stampa di Torino che esce in quei giorni. Sotto il titolo "Scomparsi gli anarchici per evitare gli interrogatori", il quotidiano della Fiat scrive: "Fino a qualche tempo fa gli anarchici a Milano erano pochi, privi di mezzi. per nulla organizzati. Ora qualcuno ha pensato di sfruttare le loro utopie. Così gli anarchici sono stati corteggiati e finanziati dall’estrema destra totalitaria e dall’estremismo di sinistra". Come si vede, il pogrom antianarchico è già giustificato e programmato e nello stesso tempo si è aperto quel discorso sugli opposti estremismi, di destra e di sinistra, che al momento buono potrà servire alle forze moderate per invocare il ripristino dell’"ordine" turbato.
Infine gli anarchici, abilmente "pubblicizzati" da una massiccia campagna di informazione tendente a esagerare e a mitizzare questo loro ruolo negativo, consentono anche una escalation della repressione che si attui in modo subdolo e strisciante, che coinvolga lentamente, usando i tempi lunghi, le stesse forze della sinistra più solide e organizzate (sindacati e PCI), senza provocare traumi né nell’opinione pubblica moderata né nelle forze politiche costituzionali.
Per capire la complessità della manovra che si andava preparando sulle spalle degli anarchici. serve rileggere, fra i tanti, questo brano di un articolo della Stampa di Torino che esce in quei giorni. Sotto il titolo "Scomparsi gli anarchici per evitare gli interrogatori", il quotidiano della Fiat scrive: "Fino a qualche tempo fa gli anarchici a Milano erano pochi, privi di mezzi. per nulla organizzati. Ora qualcuno ha pensato di sfruttare le loro utopie. Così gli anarchici sono stati corteggiati e finanziati dall’estrema destra totalitaria e dall’estremismo di sinistra". Come si vede, il pogrom antianarchico è già giustificato e programmato e nello stesso tempo si è aperto quel discorso sugli opposti estremismi, di destra e di sinistra, che al momento buono potrà servire alle forze moderate per invocare il ripristino dell’"ordine" turbato.
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giovedì 21 novembre 2019
PIAZZA FONTANA Cinquant’anni fa - Le Stragi
Materialmente, la fase calda del piano che porterà alta prima delle grandi stragi inizia accusando alcuni giovanissimi anarchici di essere i responsabili oltre che di piccoli "botti" dimostrativi, anche delle bombe che il 25 aprile 1969 scoppiano al padiglione FIAT della Fiera Campionaria e all'ufficio Cambi della stazione di Milano e di quelle esplose sui treni il successivo 8 agosto, bombe vere in attentati veri con numerosi feriti. Di quelle sui treni, in particolare, si tenterà poi strenuamente - e vanamente - di accusare il ferroviere Pinelli anche dopo la morte. I "terroristi anarchici" fanno così il loro ingresso nell'immaginario mediatico-collettivo. Ed è proprio nelle indagini su quegli attentati che il nome di Luigi Calabresi, giovane e promettente commissario aggiunto dell'ufficio politico della Questura di Milano, entra come protagonista nelle cronache giudiziarie del tempo.
È in un clima che minaccia altre violenze e attentati che scatta l'ora X: quella in cui la tensione deve essere esasperata e portata all'estremo, anche a costo di vite umane, per giustificare di fronte all'opinione pubblica e alla comunità internazionale la dichiarazione dello stato di emergenza e lo scioglimento delle Camere. Ed è proprio attraverso il sacrificio di un adeguato numero di vite umane che si decide di raggiungere l'obiettivo. Nella logica della strategia le vittime devono essere scelte a caso tra la gente comune, in luoghi che tutti possono frequentare in modo che ciascuno si possa identificare come la vittima o come il prossimo bersaglio. Sommandosi ai cortei e alle manifestazioni di piazza, agli scontri tra dimostranti e polizia, a molotov e spranghe, a candelotti e manganelli e alla minaccia di nuovi attentati "anarchici", la strage deve suscitare un clima di terrore senza scampo.
Quella di piazza Fontana sarà la "madre", ma altre stragi seguiranno: tralasciando gli attentati minori, Peteano (G0), maggio 1972, tre morti; piazza della Loggia a Brescia, maggio 1974, otto morti; treno Italicus presso san Benedetto Val di Sambro, agosto 1974, dodici morti e la strage alla stazione di Bologna nell'agosto 1980, ottantacinque morti, sono al di là di ogni dubbio da ascriversi a questa strategia. Di natura individuale è probabilmente da ritenersi l'attentato di Gianfranco Bertoli alla Questura di Milano - maggio 1973 - con quattro morti, mentre di altra matrice sarà anni dopo la genesi della strage del 1984 sul treno rapido 904, all'interno della galleria dell'Appennino nei pressi di San Benedetto Val di Sambro, diciassette i morti, ove compare la mano della mafia.
(Tratto dal libro "Pinelli una finestra ancora aperta")
È in un clima che minaccia altre violenze e attentati che scatta l'ora X: quella in cui la tensione deve essere esasperata e portata all'estremo, anche a costo di vite umane, per giustificare di fronte all'opinione pubblica e alla comunità internazionale la dichiarazione dello stato di emergenza e lo scioglimento delle Camere. Ed è proprio attraverso il sacrificio di un adeguato numero di vite umane che si decide di raggiungere l'obiettivo. Nella logica della strategia le vittime devono essere scelte a caso tra la gente comune, in luoghi che tutti possono frequentare in modo che ciascuno si possa identificare come la vittima o come il prossimo bersaglio. Sommandosi ai cortei e alle manifestazioni di piazza, agli scontri tra dimostranti e polizia, a molotov e spranghe, a candelotti e manganelli e alla minaccia di nuovi attentati "anarchici", la strage deve suscitare un clima di terrore senza scampo.
Quella di piazza Fontana sarà la "madre", ma altre stragi seguiranno: tralasciando gli attentati minori, Peteano (G0), maggio 1972, tre morti; piazza della Loggia a Brescia, maggio 1974, otto morti; treno Italicus presso san Benedetto Val di Sambro, agosto 1974, dodici morti e la strage alla stazione di Bologna nell'agosto 1980, ottantacinque morti, sono al di là di ogni dubbio da ascriversi a questa strategia. Di natura individuale è probabilmente da ritenersi l'attentato di Gianfranco Bertoli alla Questura di Milano - maggio 1973 - con quattro morti, mentre di altra matrice sarà anni dopo la genesi della strage del 1984 sul treno rapido 904, all'interno della galleria dell'Appennino nei pressi di San Benedetto Val di Sambro, diciassette i morti, ove compare la mano della mafia.
(Tratto dal libro "Pinelli una finestra ancora aperta")
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COLIN WARD e L’esperienza di «Anarchy»
Il mio primo contributo alla stampa anarchica l’ho scritto nel 1943 quando ero un coscritto dell’esercito britannico di stanza nelle Isole Orkney, a nord della Scozia, dove molte delle persone con cui condividevo la mia permanenza erano coscritti dell’esercito italiano presi prigionieri in Nord Africa. Questi prigionieri avevano la mia stessa età e venivano quasi tutti dal Sud Italia e dalle isole. Tornarono a casa nel 1947 e così feci anch’io. Proprio in quell’anno ero stato invitato ad unirmi al gruppo editoriale che pubblicava il settimanale anarchico «Freedom». Alla fine degli anni ’50 ebbi l’impressione che fossero emersi nuovi potenziali lettori sensibili ad una propaganda anarchica, in particolare per l’enorme espansione dell’istruzione superiore, ambito in cui l’attività politica per decenni era sembrata dover essere automaticamente dominata dal marxismo. (Penso che la situazione italiana fosse molto simile a quella della Gran Bretagna). In quell’epoca cominciai a sostenere che, piuttosto che usare tutte le nostre energie per produrre un settimanale senza che ci rimanesse tempo né per far circolare il giornale in modo efficace, né per consentirci di fermarci a pensare, avremmo dovuto produrre un mensile in un formato che in quei giorni si chiamava in-quarto (ora formato A4). Scrissi parecchi articoli su «Freedom» spiegando le ragioni per le quali pensavo che un cambiamento «ci avrebbe permesso di esprimere in modo più comprensibile e chiaro il pensiero anarchico sulla realtà sociale del mondo contemporaneo», dandogli «una maggiore
incisività e un maggior impatto propagandistico» («Freedom», 10 dicembre 1960). E rincalzavo la dose scrivendo che «se mai ci fossimo proposti di effettuare la transizione da setta a forza sociale», avremmo avuto bisogno di rivitalizzare «Freedom», e questo «perché non eravamo riusciti a formulare alternative anarchiche nei più importanti campi della vita. Ed era proprio questa la ragione per cui la maggior parte di quanti avrebbero potuto portare nuova vita alle nostre attività non ci potevano prendere sul serio» («Freedom», 3 dicembre 1960).
I miei colleghi del gruppo editoriale Freedom Press risposero con una apertura mentale estrema e in effetti dissero: lasciamo che coloro che vogliono produrre un settimanale lo facciano, e che coloro che vogliono produrre un mensile facciano altrettanto. Fu allora deciso che nella prima settimana di ogni mese sarebbe apparsa la rivista mensile invece del settimanale e che avrebbe dovuto avere non il formato in-quarto che mi ero immaginato per un «Freedom» mensile, ma una pagina in-ottavo (l’attuale A5). Mi misi a pensare ad un nome per la nuova testata e selezionai «Autonomy», completato dal sottotitolo giornale di idee anarchiche. Era questo il titolo di uno dei primi giornali anarchici pubblicati in Gran Bretagna. Tuttavia ebbi molte pressioni per modificare il titolo in «Anarchy», il che rese il sottotitolo piuttosto superfluo sebbene sia stato mantenuto sino al ventisettesimo numero; dopodiché scomparì, ma non per decisione mia bensì dell’eccellente disegnatore che si occupava delle copertine: Rufus Segar.
Mi ero immaginato un «Freedom» mensile e invece mi ritrovai a produrre un giornale completamente diverso del quale io ero l’unico redattore. E una volta che l’impostazione di base era stata definita, mi fu data un’autonomia totale: nessuno discuteva quello che veniva pubblicato su
«Anarchy». Altre persone del gruppo intrapresero i nuovi complicati incarichi amministrativi – gli abbonamenti solo per «Freedom», gli abbonamenti solo per «Anarchy» e gli
abbonamenti cumulativi che noi tutti speravamo i nuovi lettori avrebbero scelto - così come tutta la massa di lavoro necessaria per evadere gli ordini e occuparsi della spedizione. Menziono tutti questi particolari della produzione perché penso che anche in altri Paesi i piccoli gruppi di persone interessate al giornalismo anarchico abbiano affrontato problemi simili.
Nel 1970 comunicai ai miei colleghi, con sei mesi di preavviso, la mia intenzione di smetterla di fare il redattore.
Era mia opinione che dieci anni di lavoro redazionale fossero troppi per chiunque, anche per il più formidabile dei redattori: routine e formule automatiche cominciano a imporsi. E sebbene la gente spesso mi dica ancor’oggi che «Anarchy» negli anni Sessanta affrontava argomenti che sono stati poi percepiti come importanti solo negli anni Settanta e Ottanta, ci stavamo comunque muovendo verso un decennio differente. Sono diventato uno scrittore di libri, soprattutto sull’abitare, l’educazione e sugli usi popolari o non ufficiali dell’ambiente, rimanendo in parte anche un giornalista semplicemente perché i venticinque libri che ho scritto o curato nei successivi venticinque anni mi hanno fatto guadagnare molto poco. Tutti quanti, però, hanno proposto un approccio anarchico ad un pubblico di lettori che non avrei raggiunto altrimenti.
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incisività e un maggior impatto propagandistico» («Freedom», 10 dicembre 1960). E rincalzavo la dose scrivendo che «se mai ci fossimo proposti di effettuare la transizione da setta a forza sociale», avremmo avuto bisogno di rivitalizzare «Freedom», e questo «perché non eravamo riusciti a formulare alternative anarchiche nei più importanti campi della vita. Ed era proprio questa la ragione per cui la maggior parte di quanti avrebbero potuto portare nuova vita alle nostre attività non ci potevano prendere sul serio» («Freedom», 3 dicembre 1960).
I miei colleghi del gruppo editoriale Freedom Press risposero con una apertura mentale estrema e in effetti dissero: lasciamo che coloro che vogliono produrre un settimanale lo facciano, e che coloro che vogliono produrre un mensile facciano altrettanto. Fu allora deciso che nella prima settimana di ogni mese sarebbe apparsa la rivista mensile invece del settimanale e che avrebbe dovuto avere non il formato in-quarto che mi ero immaginato per un «Freedom» mensile, ma una pagina in-ottavo (l’attuale A5). Mi misi a pensare ad un nome per la nuova testata e selezionai «Autonomy», completato dal sottotitolo giornale di idee anarchiche. Era questo il titolo di uno dei primi giornali anarchici pubblicati in Gran Bretagna. Tuttavia ebbi molte pressioni per modificare il titolo in «Anarchy», il che rese il sottotitolo piuttosto superfluo sebbene sia stato mantenuto sino al ventisettesimo numero; dopodiché scomparì, ma non per decisione mia bensì dell’eccellente disegnatore che si occupava delle copertine: Rufus Segar.
Mi ero immaginato un «Freedom» mensile e invece mi ritrovai a produrre un giornale completamente diverso del quale io ero l’unico redattore. E una volta che l’impostazione di base era stata definita, mi fu data un’autonomia totale: nessuno discuteva quello che veniva pubblicato su
abbonamenti cumulativi che noi tutti speravamo i nuovi lettori avrebbero scelto - così come tutta la massa di lavoro necessaria per evadere gli ordini e occuparsi della spedizione. Menziono tutti questi particolari della produzione perché penso che anche in altri Paesi i piccoli gruppi di persone interessate al giornalismo anarchico abbiano affrontato problemi simili.
Nel 1970 comunicai ai miei colleghi, con sei mesi di preavviso, la mia intenzione di smetterla di fare il redattore.
Era mia opinione che dieci anni di lavoro redazionale fossero troppi per chiunque, anche per il più formidabile dei redattori: routine e formule automatiche cominciano a imporsi. E sebbene la gente spesso mi dica ancor’oggi che «Anarchy» negli anni Sessanta affrontava argomenti che sono stati poi percepiti come importanti solo negli anni Settanta e Ottanta, ci stavamo comunque muovendo verso un decennio differente. Sono diventato uno scrittore di libri, soprattutto sull’abitare, l’educazione e sugli usi popolari o non ufficiali dell’ambiente, rimanendo in parte anche un giornalista semplicemente perché i venticinque libri che ho scritto o curato nei successivi venticinque anni mi hanno fatto guadagnare molto poco. Tutti quanti, però, hanno proposto un approccio anarchico ad un pubblico di lettori che non avrei raggiunto altrimenti.
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