Il non-cinema di Debord contiene elementi espressivi elaborati sulla distruzione di ciò che ci minaccia. Le opere cinematografiche di Debord praticano e allargano la critica radicale della civiltà dello spettacolo. L’utopia situazionista disseminata in questi film s’incentra su una poetica del fuoco e sulle tentazioni di appiccarlo a tutti i Palazzi d’Inverno. È l’utopia che guida le passioni e moltiplica i contrasti e i sogni, spezza destini e annuncia nuove epifanie dell’anima. Urla in favore di Sade (1952), Sul passaggio di alcune persone attraverso un’unità di tempo piuttosto breve (1959), Critica della separazione (1961), La società dello spettacolo (1973). Confutazione di tutti i giudizi, tanto ostili che elogiativi, che sono stati finora dati sul film La società dello spettacolo (1975), In girum imus nocte et consumimur igni (1978), Guy Debord, son art et son temps (1994) realizzato con la collaborazione con Brigitte Cornand, sono invettive, bestemmie, provocazioni contro tutto quanto figura la degenerazione delle forme di dominio approntate dall’uomo contro l’uomo. Lo spettacolo è il monologo elogiativo delle proprie forche, è l’autoritratto del potere di un’epoca. Sparate allo schermo, prima di strisciare in quella fabbrica di sogni che mortifica l’intelligenza dei poeti. La magia del cinematografo è altra cosa. La menzogna hollywoodiana è un simulacro spettacolare dove le puttane e le madonne, i mostri e gli eroi, la catastrofe e il lieto fine sono parte del linguaggio sequestrato delle scimmie e i loro fantasmi si manifestano come semidei di celluloide in attesa di assurgere al più alto dei loro compiti, quello dell’istupidimento dell’immaginario collettivo. I codici del cinema dominante sono gli stessi messi in opera nelle galere, nei manicomi o nei parlamenti: la promessa di felicità insomma che “gli ultimi saranno i primi” e le umiliazioni saranno rimesse con i peccati, nei confessionali della storia. Le rivoluzioni non sono mai state attuali, pretendevano di rovesciare il potere con gli stessi mezzi. La rivoluzione, come la volgarità, è contagiosa, specie nei momenti in cui i rivoluzionari di professione hanno già venduto l’entusiasmo dei loro sostenitori al miglior offerente. La delicatezza non fa parte dei comitati centrali di qualsiasi ordine, solo in punto di morte i fanatici del potere si rendono conto della loro inutilità, ma i mostri che hanno partorito sono già ascesi alla gloria dei cleri e dalle segrete delle banche hanno appestato i banchi del sapere, contaminato gli asili pubblici, oliato la lama della ghigliottina economica e senza un filo di nobiltà hanno eretto il dogma del mercato globale. I morti non si contano più. La vendita di armi sì. La Borsa internazionale accomuna i massacri del progresso alle vacanze degli operai. I bambini si possono uccidere, vendere, stuprare, basta un poco di riservatezza. I prezzi sono buoni. Ci sono tanti padri di famiglia, timorati di Dio e dello Stato, che non sanno rinunciare alla tentazione di violare una bambina, specie se nera, ma vanno bene anche asiatiche, russe, bosniache... occorre soltanto un paio di dollari. È la stessa gente che chiede il rigore, la serietà, la coerenza ai parlamentari che crede di eleggere, porta i vessilli nelle parate militari, impalma la politica della rapina pubblica e non trova nemmeno il coraggio di mortificarsi delle proprie tenebre o di spararsi un colpo in bocca. Non ci sono governi buoni né governanti onesti che non siano ladri di bellezza”. I film apolidi di Debord esprimono una denuncia profonda del linguaggio cinematografico e nella critica radicale che portano contro la società dello spettacolo scorge anche la necessità di rifondare la pratica rivoluzionaria e intervenire contro il sistema delle merci.
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