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giovedì 16 maggio 2019

DISOBBEDIRE

Obbedire quasi sempre vuol dire rinunciare a se stessi, dire sempre sì all’altro da sé e rinunciare sempre a se stessi: non voglio noie, non voglio vedere, capire, ascoltare, sentire; non voglio chiedere perché ho paura di quello che potrei scoprire, delle possibili conseguenze in termini di carriera, ruolo, posizione sociale, mi è comodo seguire l’onda del perbenismo, mi gratifica  la considerazione di chi esercita il potere.
Disobbedire è qualcosa di più che non obbedire, perché l’azione del non obbedire e talvolta spontanea, immediata, di pelle, non presuppone un articolato ragionamento. Disobbedire, infatti significa assumere in toto  paternità di un’azione di non obbedienza e farla diventare un comportamento visibile e consapevole, quindi trasformare un moto spontaneo in una scelta politica.  
Diventa importante capire che essere liberi vuol dire prima di tutto voler essere liberi. Essere liberi dal liberarsi dal desiderio di obbedire, estirpare la tendenza alla docilità, non pensare che sia sufficiente lavorare da soli per emanciparsi dall’obbedienza.
Ma per volere essere liberi è indispensabile capire che non siamo responsabili perché siamo liberi, ma siamo liberi perché siamo responsabili. Se non comprendiamo questo, si continua a giustificare sostanzialmente la sottomissione, si cerca pervicacemente, attraverso la delega a qualcosa o qualcuno, di spiegare, che diventa in questo modo un giustificare, ogni forma di sottomissione. Essere responsabili significa dunque assumersi il compito di interrogare sistematicamente il nostro comportamento, le nostre relazioni, alla luce di una visione che alimenti ogni forma di liberazione possibile.
La radice più profonda del dominio non sta tanto in chi lo esercita ma soprattutto in chi lo subisce per comodità per abitudine, per interesse, per codardia e via dicendo, dunque per irresponsabilità. Disobbedire vuol dire esercitare ogni forma di lotta radicale e di critica alla delega e alle spiegazioni giustificative che troppo spesso mettiamo in campo per assolverci all’imperativo categorico che abbiamo assimilato con l’obbedienza.

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