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giovedì 23 maggio 2019

Ricordando Carlo Cafiero

Carlo Cafiero è una notevole personalità, uomo dei nostri tempi, non già malgrado ma grazie alle sue contraddizioni: contraddizioni che egli attrasse in sé dalla società circostante, esasperandole e ingigantendole fino alla follia. 
Fu dentro ai maggiori movimenti intellettuali dell'epoca — cristiano, libero pensatore, marxista, anarchico, comunista, e individualista, rivoluzionario e riformatore, violento e non-violento, materialista e idealista — sempre con un filo di coerenza interiore che tiene assieme il blocco della sua umanità. 
Fu il primo marxista italiano ma fu anche il primo critico della dottrina marxista in Italia. Fu anarchico intransigente per tanti anni ma nell'ultima fase della sua attività pubblica, accettò i mezzi legali, la via parlamentare e —  nolente  — la candidatura.  Fu nell'anarchismo della corrente federalista e associativa, fondatore della Federazione Italiana dell'Internazionale, presidente  dei congressi nazionali di  Rimini e di  Chiasso, di quelli internazionali di Saint-Imier e di Berna, ma con le sue teorie dell'azione diretta individuale, dei fatti spontanei, dell'illegalismo e dell'amorfismo  precorse le tendenze individualiste dei decenni successivi. Fu un rigido, un oltranzista, un consequenziario, un estremista e un esclusivo, eppure  quanti lo conobbero restarono colpiti dalla mitezza d'animo e dalla dolcezza nei rapporti umani: «un uomo», disse Kropotkin, «che non avrebbe mai fatto del male a nessuno, e che ciò nonostante prese il fucile e si mise in marcia per le montagne del beneventano».  
Fu un uomo forte verso l'esterno ma una natura fragile all'interno, quasi femminile. Fu un impulsivo e un eccessivo nelle inimicizie, pronto e aperto alle riconciliazioni: con Marx, con Bakunin, con Costa, con lo stesso Tito Zanardelli che lo aveva ricoperto di grossolane ingiurie. Non avrebbe perdonato ad un compagno una leggerezza o una scorrettezza nocive alla causa e poi idealizzava la teppa come forza rivoluzionaria ignaro di quali istinti fosse deposito. Fu un solitario, un aristocratico nei modi e nei gusti; ed anche nel  linguaggio, violento mai triviale. Eppure non poteva vivere che immerso nel popolo, fra «i sofferenti» come lui diceva in contrapposizione ai «gaudenti».Operai, popolani, plebei furono i suoi compagni di lotta e di sventura. Fu un uomo del suo secolo, pur nella brevità temporale — appena  dodici  anni — della sua azione pubblica. Nato l'anno in cui Proudhon pubblicava La filosofia della miseria, il «manifesto» della questione sociale, fu accolto nelle file dell'Internazionale da Marx nella primavera della Comune di Parigi. Cadde, atterrato definitivamente dalla malattia, un mese prima della morte di Marx, di cui egli era stato il critico e il divulgatore. Mori infine pochi giorni prima che in Italia sorgesse un moderno partito operaio d'ispirazione marxista dal solco della scissione fra socialismo e anarchismo: due termini di cui egli aveva tentato l'ardita sintesi. 
Chi ha seguito le vicende di quest'uomo tragico e fantastico, che ne ha ascoltata la voce, avrà riconosciuto in lui e nella sua vita momenti e tratti della nostra storia d'ieri e di oggi, il segno dei nostri ricorrenti problemi, la traccia di virtù e di difetti nazionali, il riflesso sanguigno delle lotte di classe e di partiti del nostro paese. Ma al di là di tutto questo, al di là della politica e della storia, Cafiero porta in sé, nel suo acuto destino, un frammento dell'umana odissea. I suoi rifiuti successivi — della famiglia, della chiesa, dello stato, della ricchezza e del sesso, del cibo e del vestiario, della stessa vita, della stessa  ragione — altro non sono che tappe della ricerca di un'altra cosa, di una diversa dimensione al di là del reale e dell'umano.

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