Ciò che si definisce come Stato è simile a un intreccio e una tessitura congiunta da legami e da adesioni, una proprietà comune dove tutti coloro che fanno causa comune si accomodano gli uni con gli altri, e dipendono gli uni dagli altri. Lo Stato è l'ordinamento di questa dipendenza reciproca. Tende a scomparire il re che conferisce l'autorità a tutti, dall'alto in basso, per giungere fino all'aiutante del boia, l'ordine non sarebbe perciò meno difeso contro il disordine delle forze istintive da tutti coloro che hanno il senso dell'ordine profondamente radicato nella loro coscienza. Poiché se vincesse il disordine, questa eventualità sarebbe la fine dello Stato. Ma questo sentimento ideale di adattarsi reciprocamente, di fare causa comune e di dipendere gli uni dagli altri, può forse veramente convincerci? Sotto questo punto di vista lo Stato sarebbe la realizzazione stessa dell'amore dove ciascuno esisterebbe per gli altri e vivrebbe per gli altri. Ma il senso dell'ordine non sta forse mettendo in pericolo la personalità? Non bisogna forse accontentarsi di garantire l'ordine con la forza di modo che niente e nessuno «schiacci i piedi al vicino» oppure che la truppa sia opportunamente incolonnata o schierata? Ogni cosa allora va nel migliore dei modi, nel massimo ordine ed è questo un ordine ideale, ma è lo Stato. Le nostre società e i nostri Stati esistono senza che noi li creiamo; essi si sono formati senza il nostro consenso, essi sono prestabiliti, godono di un'esistenza propria, indipendente; essi sono contro noi individualisti che viviamo in modo irrepetibile. Il mondo d'oggi è, come si dice, in lotta contro «lo stato di cose esistente». Tuttavia ci si inganna in genere sul significato di questa lotta, come se non si trattasse che di cambiare ciò che esiste attualmente con un nuovo ordine che sarebbe migliore. È piuttosto a ogni ordine esistente, vale a dire allo Stato che la guerra dovrebbe essere dichiarata, non a uno Stato in particolare, ancora meno alla forma attuale dello Stato. L'obiettivo da raggiungere non è un altro Stato ma l'associazione, modo di associarsi sempre mutevole e rinnovato di tutto ciò che esiste. Lo Stato è presente anche senza la mia partecipazione. Io vi nasco, vi sono educato, ho verso di lui i miei doveri, io gli devo «fedeltà e omaggio». Egli mi prende sotto la sua ala protettrice e io vivo della sua grazia. L'esistenza indipendente dello Stato è il fondamento della mia mancanza d'indipendenza. La sua crescita naturale, la sua vita come organismo esigono che la mia natura non si sviluppi per me liberamente, ma che sia ritagliata sulla misura. Perché lo Stato possa espandersi naturalmente, esso mi fa passare sotto le forbici della «cultura». L'educazione e l'istruzione ch'esso mi dà sono basate sulla sua misura e non sulla mia. Esso m'insegna per esempio a rispettare le leggi, ad astenermi dal portare minacce alla proprietà dello Stato (vale a dire alla proprietà privata), a venerare una maestà divina e terrestre. In una parola esso m'insegna ad essere irreprensibile, sacrificando la mia individualità sull'altare della «santità » (è santa qualsiasi cosa, per esempio la proprietà, la vita d'altri, ecc.). Tale è la qualità della cultura e dell'istruzione che lo Stato è pronto a darmi. Esso mi conduce a diventare uno «strumento utile», un «membro utile della società». Questo è ciò che deve fare ogni Stato sia esso «uno Stato popolare» assoluto o costituzionale. Esso sarà uno Stato fino a che noi saremo cascati nell'errore di credere che esso sia «un individuo» e come tale una «persona » morale, mistica o pubblica.
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