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giovedì 29 settembre 2022

Cominciamo a parlare dell’acqua

Il processo di mercificazione dell’acqua è diverso a seconda delle regioni climatiche e degli usi ai quali, nel corso della storia, è stato destinato il liquido elemento dagli esseri umani. In primo luogo, grazie al sole e all’acqua piovana la fotosintesi colora di verde boschi e praterie, montagne e valli; tutte le specie vegetali insomma sono di vitale importanza per l’alimentazione dei mammiferi e degli uccelli che ossigenano il pianeta – non a caso la foresta amazzonica è chiamata il polmone della Terra. Questa acqua che non conta come fattore di produzione, nemmeno nelle più ingegnose contabilità ministeriali, manca di prezzo; non è mai stata mercificata per il fatto che, fino ad oggi, la pioggia è sfuggita al controllo della società tecnologica. L’acqua di qualità non ha mai avuto un prezzo nelle regioni a clima mediterraneo. Nella penisola iberica le leggi sull’acqua, cristiane e islamiche, tenevano conto dell’uso di acqua potabile per le persone e per gli animali in modo che, per l’accesso alle fonti e agli abbeveratoi anche quando si trovavano in terreni privati, i signori della terra dovevano rispettare il diritto di passaggio affinché la gente potesse saziare la sete e gli animali domestici abbeverarsi. D’altro canto, l’acqua naturale immagazzinata in cisterne o estratta dalla fonte e da pozzi vicini o all’interno dei nuclei urbani conservò nei secoli una buona qualità per essere bevuta. Tutto ciò cambiò a partire dalla seconda metà del XIX secolo con la rivoluzione industriale, la crescita delle città e, successivamente, con l’industrializzazione dell’agricoltura che portarono alla devalorizzazione dell’acqua naturale convertendola in un elemento scarso e accessibile solo a prezzi alti. È bastato un secolo e mezzo perché la maggior parte della popolazione delle regioni mediterranee (così come di quasi tutto il mondo) dovesse pagare per l’acqua di qualità, della quale ha bisogno obbligatoriamente per vivere.


Zo d'Axa, giornalista e giornalista libertario – parte seconda

In esilio insieme a Matha, trovò brevemente asilo presso Charles Malato, uno dei tanti esiliati politici nel quartiere francese di Londra. Il suo ospite lo raffigurava come uno “scrittore e cavaliere errante..., avvolto in un mantello di colore scuro, con un sombrero in testa. Sotto l'ampia tesa si distinguevano solo i ciuffi della sua lussureggiante barba... Zo d'Axa avrebbe potuto reclamare come armi la penna, la spada e la chitarra, poiché era un formidabile polemista, un valoroso spadaccino e un irresistibile Don Juan.” Dopo tre mesi, stanco della vita grigia sulle rive del Tamigi, decise di partire per un lungo viaggio che lo avrebbe portato attraverso l'Europa fino al Medio Oriente. Nel dicembre dello stesso anno fu arrestato a Giaffa dai militari francesi, che lo costringono a tornare a casa su una barca del servizio trasporto francese. Fu arrestato al suo arrivo e trascorse alcuni giorni nel carcere di Marsiglia prima di essere trasferito nel carcere di Saint-Pélagie a Parigi, dove si rifiutò di firmare una petizione. Fu liberato il giorno in cui il cadavere del Presidente della Repubblica, Sadi Carnot, ucciso a Lione il 24 giugno dall'anarchico italiano Sante Caserio, fu sepolto. Mentre era in prigione, scrisse il racconto del suo viaggio, De Mazas à Jérusalem . L'opera ha ricevuto un'ottima accoglienza dalla critica, da Jules Renard a Octave Mirbeau, da Laurent Tailhade a Georges Clémenceau. Incurante di ogni carriera letteraria, Zo d'Axa dirige l'effimero quotidiano anarchico La Renaissance (dicembre 1895-gennaio 1896), per il quale scrive insieme a Félix Fénéon, Mécislas Goldberg, Bernard Lazare, Laurent Tailhade, Michel Zévaco. Nell'ottobre del 1897, nel bel mezzo dell'affare Dreyfus, Zo d'Axa tentò un nuovo esperimento. Ogni volta che poteva, pubblicava La Feuille . Il seguente frammento potrebbe essere il suo manifesto: “Parleremo anche al popolo, e non per adularlo, né per promettere loro oceani e montagne, fiumi e confini naturali, né una repubblica retta o un candidato onesto; né una rivoluzione che prefigura l'avvento di un paradiso terrestre... Tutti questi inni sono attualmente canticchiati; qui parleremo chiaramente. Non posso promettertelo. Nessun inganno. Parleremo di eventi più vari, mostreremo le cause latenti, ne indicheremo le ragioni. E riveleremo i trucchi e racconteremo i nomi di truffatori, politici ladri, letterati – tutti i signori qualunque. “Parleremo di cose semplici in modo semplice”. Un unico foglio su cui troviamo un disegno sul fronte di Maximilien Luce, Steinlein, Wilette, ecc., e sul retro un articolo di Zo d'Axa. Il suo colpo da maestro fu la proclamazione del candidato di Feuille, un asino di nome Nul, che issato su un carro ha fatto il giro di Parigi il giorno delle
elezioni tra gli applausi dei passanti. Quando sono intervenute le forze dell'ordine, Zo d'Axa ha dichiarato: "Non possiamo fermarci che è un candidato ufficiale". Aveva presentato l'asinello come: “un candidato non eccessivamente educato, un essere pacifico che beve solo acqua e  non si sottrae a un bicchiere di vino. Più o meno l'esempio perfetto di un rappresentante de governo.” All'alba del nuovo secolo, Zo d'Axa, stanco di tanta lotta, chiuse La Feuille e intraprese la vita di vagabondo in tre continenti. Ha scritto le sue impressioni delle sue peregrinazioni su vari diari. Scrisse per L'Ennemi du peuple , edito da Emile Janvion, che lo pubblicò dal 1 agosto 1903 al 1 ottobre 1904. Negli Stati Uniti si recò a Paterson (New Jersey) dove, secondo le sue parole, «i profughi del Vecchio Mondo vanno ad affilare i coltelli e a rimuginare sui proiettili contro la quiete dei re”. In una periferia di Jersey City conobbe la vedova dell'anarchico Gaetano Bresci che aveva ucciso il re Umberto I d'Italia il 30 luglio 1900. La Revue Blanche dei fratelli Natanson pubblicò la sua storia nel settembre 1902. Tornato in Francia, si stabilì a Marsailles, dove lo si poteva incontrare “passando sulla Canebière o in bicicletta intorno alla soleggiata Corniche”. Era comunque sempre un refrattario, “né la guerra del 1914 –1918 né la dittatura bolscevica ebbe la sua approvazione”. Nel 1921, di passaggio a Parigi, pubblica il suo ultimo articolo su Le Journal du Peuple per rispondere alle sciocchezze dei giornali borghesi. L'uomo era invecchiato, ma la sua penna era ancora affilata e brillante: “tacere non servirebbe a preservarmi dall'onore di sembrare un penitente... Gli ultimi amici di L'Endehors e La Feuille conoscono il significato di un passato che il presente non ha intenzione di rinnegare. Per un buon tratto, abbiamo reagito insieme alla disgustosa realtà dei tempi. Siamo stati trattati come anarchici. L'etichetta non era molto importante... Allora cosa è vivere? Mi godo la mattina su sentieri vicini e lontani, e senza penna, con l'unico scopo di comprendere la giornata limpida fuori da ogni miraggio vacillante, lontano dalle pagine su cui si scrive». Zo d'Axa tentò il suicidio per la prima volta nel 1927. Tre anni dopo, il 30 agosto 1930, mentre viveva al numero 71 di Promenade de la Corniche a Marsiglia, pose fine alla sua vita. La notte precedente aveva bruciato quasi tutte le sue carte. Contrariamente alla previsione di Victor Méric, il nome di Zo d'Axa non è ancora stampato “a lettere di fuoco” nelle antologie di grandi scrittori e pamphlet francesi. Motivo in più per rievocare semplicemente la sua memoria in attesa di un possibile ma tardivo riconoscimento della sua qualità di scrittore e della sua rettitudine morale come una delle figure più originali e coinvolgenti dell'anarchismo “ fin de siècle ”.

 



Gustavo Petro all’ONU

Ha fatto grande impressione, in Colombia, il discorso pronunciato da Gustavo Petro all’Assemblea generale delle Nazioni unite. Un tale atto di accusa verso il potere mondiale, duro e al tempo stesso poetico, si era del resto ascoltato raramente all’Onu e di certo mai da parte di un presidente colombiano. Petro ha esordito con un inno alla bellezza del suo paese, terra di farfalle gialle e di magia in cui la vita risplende in tutta la sua lussureggiante forza, dalla foresta amazzonica alla giungla del Chocó, fino alla cordigliera delle Ande e agli oceani. Ma dalle montagne e dalle valli di ogni sfumatura di verde, ha proseguito, non scendono solo acque abbondanti, ma anche torrenti di sangue: la Colombia è un paese dalla bellezza insanguinata, dove la biodiversità erompe tra le danze dell’orrore e della morte. Chi è allora il colpevole di rompere l’incanto con il terrore? Il Presidente ha puntato l‘indice contro la guerra alla droga denunciato l’accanimento sulla coltivazione della coca come fattore di distruzione della selva, alibi per non intervenire sule cause del consumo degli stupefacenti. La foresta amazzonica emana l’ossigeno planetario e assorbe l’anidride carbonica grazie alla pianta della cocaina, una delle più perseguitate della terra, ha detto Petro insistendo sul paradosso per cui la selva che si cerca di salvare distruggere è al tempo stesso distrutta. Distruggere la foresta è divenuto l’obiettivo perseguito da Stati e negozianti, ha detto il presidente denunciando l’uso massiccio dei pesticidi, glisolfato che corre nelle acque e per i campi. La foresta amazzonica è vista come un nemico da sconfiggere. Lo spazio della cocaina e quello dei contadini che la coltivano, visto che non hanno nient’altro da coltivare, è demonizzato. A voi, ha detto Petro, il mio paese non interessa se non per rovesciare veleno, arrestare gli uomini ed escludere le loro donne. E mentre viene demonizzato lo spazio della coca e dei contadini che la coltivano perché non hanno altro da coltivare, mentre un milione di latinoamericani vengono assassinati in questa guerra e due milioni di afroamericani vengono arrestati, mentre ipocriti distruggono le piante per occultare i disastri di una società talmente competitiva da condannare alla solitudine del cuore, ma invece ci viene chiesto carbone e ancora più carbone, petrolio e ancora più petrolio, per calmare l’altra dipendenza: quella dal consumo, dal potere, dal denaro in modo che il loro uso può estinguere tutta l’umanità. Queste sono le cose del potere mondiale, le cose dell’ingiustizia, le cose dell’irrazionalità, perché il potere mondiale è diventato irrazionale. La verità è sotto gli occhi di tutti, La guerra contro le droghe è fallita. La lotta contro la crisi climatica è fallita. La scienza ha suonato l’allarme ma non è stata ascoltata. La guerra ci è servita come scusa per non prendere le misure necessarie. Quando le azioni erano più necessarie, quando i discorsi non servivano più, quando era indispensabile depositare soldi nei fondi per salvare l’umanità, quando dovevamo allontanarci dal carbone appena possibile e dal petrolio hanno inventato una guerra e un’altra e un’altra ancora. Hanno invaso l’Ucraina, ma anche l’Iraq, la Libia e la Siria. Hanno invaso in nome del petrolio e del gas. Hanno scoperto nel 21° secolo la peggiore delle dipendenze: la dipendenze dal denaro e dal petrolio. La guerra è solo una trappola che avvicina la fine dei tempi alla grande orgia dell’irrazionalità, affermando che non ci sarà pace se non ci sarà giustizia sociale, economica e ambientale. solo in pace potremo salvare la vita sulla terra e a salvare la foresta amazzonica con risorse stanziate a livello mondiale. E se i paesi del Nord non troveranno i fondi necessari, troppo impegnati a spendere soldi per le armi, che almeno, condonino il debito estero in cambio di vita, in cambio di natura. 

  



giovedì 22 settembre 2022

Rimettere in discussione continuamente

Oggi la specie umana è posta di fronte alla questione della sopravvivenza della specie stessa. Il modo di vita conosciuto col nome di civiltà occidentale è su un cammino di morte sul quale la sua cultura non ha risposte vitali da dare. Messi di fronte alla realtà della loro stessa distruzione, essi non possono che andare ancor più lontano verso una distruzione totale. L’apparizione del plutonio su questo pianeta è il segno più chiaro che la nostra specie è in pericolo. È un segnale che la maggior parte degli occidentali ha deciso di ignorare. I nostri antichi insegnamenti ci anticiparono che se l’uomo interferisce con le leggi naturali tutto ciò si avvererà fatalmente. Quando l’ultimo soffio del modo di vita naturale sarà estinto, tutta la speranza della sopravvivenza umana se ne andrà con lui. La distruzione delle culture dei popoli nativi appartiene allo stesso processo che ha distrutto e distrugge ancora la vita su questo pianeta. La maggior parte del mondo non trova le sue radici nella cultura o nelle tradizioni occidentali. La maggior parte del mondo ha le sue radici nel mondo naturale, ed è il mondo naturale, con le sue tradizioni, che deve prevalere se vogliamo sviluppare delle società veramente libere ed egualitarie. È necessario, attualmente, cominciare un’analisi critica della storia dell’occidente, ricercando le forme attuali delle condizioni di sfruttamento e oppressione subite dall’umanità. Nello condizioni di sfruttamento e oppressione subite dall’umanità. Nello stesso tempo in cui noi cominceremo a comprendere questo processo, dovremo reinterpretare questa storia per il popolo del mondo. È il popolo occidentale, alla fine dei conti, il più oppresso e sfruttato. Esso è schiacciato da secoli di razzismo, di sessismo e d’ignoranza che hanno reso se stesso insensibile alla vera natura della propria vita. Noi dobbiamo rimettere in discussione continuamente e accuratamente ogni modello, ogni programma, ogni metodo che l’occidente prova a imporci.


D’UN TRATTO, MI DILATA - Juan Ramón Jiménez

D’un tratto, mi dilata

la mia idea,

e più grande mi fa dell’universo.


Allora, tutto sta

dentro di me. Stelle

dure, mari profondi,

idee d’altri, terre

vergini, sono la mia anima.


E a tutto comando io,

mentre senza comprendermi,

tutto pensa a me.


Juan Ramón Jiménez Poeta spagnolo (Moguer, Huelva, 1881 - San Juan, Puerto Rico, 1958). Autore dalla limpida semplicità espressiva vicina al simbolismo, nelle sue poesie associa a una raffinata ricerca lessicale  una crescente ansia metafisica che lo porta a una posizione sempre più contemplativa. Andaluso d'origine e per sensibilità, dopo aver compiuto i suoi primi studî a Siviglia, si trasferì a Madrid, dove non prese parte attiva alla vita letteraria del momento, anche se questo era particolarmente fervido e inquieto. Preferì rimanere appartato, dedicandosi a numerose letture e pubblicando le sue liriche in periodici di breve vita. I viaggi compiuti in Francia, in Svizzera e in Italia ampliarono il suo panorama spirituale e letterario; in un viaggio negli Stati Uniti sposò Zenobia Camprubí che fu anche la sua collaboratrice più vicina. Dopo la guerra civile, andò prima a Puerto Rico, poi a Cuba e a Washington in una inquieta ricerca di pace spirituale e di raccoglimento. Nel 1956 fu insignito del premio Nobel.


Zo d'Axa giornalista libertario – parte prima

Alphonse Gallaud - il futuro Zo d'Axa - nacque il 24 maggio 1864 a Parigi da una famiglia benestante, suo padre era un ingegnere municipale della città. Dopo aver completato gli studi al Chaptal College, è entrato nell'accademia militare di Saint-Cyr. Si arruolò in un reggimento di cavalleria di granatieri e partì con i fanti per l'Africa. Ma l'avventura non era così colorata come sognava. Il giovane era annoiato a morte, e poi, con una mossa improvvisa, ha disertato, con la moglie di un ufficiale. Per il resto della sua vita sarebbe stato fortemente antimilitarista e, in ogni occasione, avrebbe dimostrato la sua solidarietà alle vittime delle istituzioni militari. Come rifugiato in Belgio, è diventato giornalista per Nouvelles du Jour, ma la vita sedentaria non gli andava bene, e viaggiò in Svizzera e poi in Italia. Quando fu amnistiato nel 1889, tornò a Parigi. Secondo Jean Grave, "Ha fatto la sua apparizione nell'ambiente letterario di Montmartre, dove ha iniziato a farsi conoscere in alcuni circoli minori annunciando la sua intenzione di pubblicare un diario". Inizialmente, ha vacillato tra la fedeltà alla monarchia o all'anarchia, come ha detto Grave, classificandolo tra "quei tipi originali che vengono a sondare l'anarchia". Nel maggio 1891 Zo d'Axa pubblica il primo numero de L'Endehors , “essenzialmente un organo letterario dell'anarchia” di cui sono
state stampate seimila copie. Lucien Descaves, un giovane scrittore e futuro membro dell'Accademia Goncourt, conosceva Zo d'Axa all'epoca e nelle sue memorie fornisce un ritratto pieno di ammirazione. “Con la barba rossa tagliata a punta, Zo d'Axa somigliava a un moschettiere vestito in borghese. Era bello, audace, sarcastico e di ineguagliabile indipendenza. Non usava mezzi termini né con gli amici né con gli avversari, quando si trattava di ciò che riteneva essere verità, la sua verità. Era en de hors (fuori, oltre) con tutta la sua persona. Non ha dovuto aspettare la provocazione per alzare la guardia. Per quanto indipendente quanto incapace di calcolare, seguiva i suoi impulsi senza rispondere a nessuno. Sotto l'eloquente stendardo L'Endehors, aveva noleggiato a proprio rischio la barca di basso tonnellaggio noleggiata per silurare una società corrotta. Un'incisione di quell'epoca mostra la redazione della rivista in un seminterrato di Boulevard Rochechouart. Accanto a Zo d'Axa ci sono Jean Grave, Augustin Hamon, Bernard Lazare, Charles Malato, Octave Mirbeau. Persone diverse come Tristan Bernard, Georges Darien, Lucien Descaves, Sébastien Faure, Félix Fénéon, Emile Henry, Camille Mauclair, Pierre Quillard, Emile Verhaeren avrebbero collaborato con lui. Zo d'Axa ha offerto a ciascuno una piattaforma da cui poter “esprimersi senza discreti eufemismi o timorose reticenze”. Su Le Figaro , Jules Huret scrive: “ L'Endehors è un settimanale che pubblica con sfrenata veemenza scritti anarchici e critica letteraria ultramoderna. È il rifugio di refrattari come Georges Darien e di poeti puri come Henri de Regnier e Saint-Pol Roux. Il direttore, Zo d'Axa, è un uomo coraggioso». Secondo Paul Adam “Zo d'Axa è un giornalista di valore” ei suoi articoli “offrono eccellenti e corrette diatribe contro la malvagità dei tempi”. Ben presto, ovviamente, le autorità iniziarono a concentrarsi su L'Endehors . L'autore di un articolo, il direttore editoriale, Louis Matha, e Zo d'Axa, sono stati condannati a pagare una multa di mille franchi ciascuno. Nel numero successivo, Zo d'Axa commentava: “Tremila franchi non sono cari”; e diede un'altra frustata alla magistratura! Dopo l'arresto di Ravachol e dei suoi compagni nel marzo 1892, L'Endehor aprì un abbonamento "per impedire che i bambini i cui genitori sono implacabilmente colpiti dalla società come ribelli dalla morte di fame". Zo d'Axa è stato arrestato, accusato di associazione per delinquere e incarcerato a Mazas. L'Endehors ha continuato a uscire durante la prigionia, grazie soprattutto a Félix Fénéon. Poco dopo, un altro articolo ha portato a un'ulteriore persecuzione. Senza aspettare di essere nuovamente arrestato, Zo d'Axa espatriò. Il 1 giugno e il 5 luglio 1892 fu condannato a 18 mesi e poi a due anni e duemila franchi, per istigazione all'omicidio e al saccheggio.



giovedì 15 settembre 2022

Parliamo ancora del no copyright

La cultura del software libero non ha niente a che fare con le pratiche del sabotaggio, e solo parzialmente con le rivendicazioni sindacali nell’ambito del lavoro. Era stata coltivata e stava iniziando a fiorire, dapprima negli Usa, e di li a poco in Italia, negli ambienti di un certo marxismo radicale, ma aveva attecchito tra i ragazzini, tra gli impiegati, tra gli hippie e gli amanti del fai da te. Nel suo dna vi era la voglia di liberarsi da una cultura della produzione legata alla proprietà privata, ma non esprimeva il conflitto attraverso l’antagonismo e lo scontro frontale con il modello da cui si voleva differenziare, bensì allontanandosene, separandosene, per dare forma a un nuovo modello basato sul dono e la cooperazione. E parte di un processo di sviluppo delle culture cosiddette dell’underground, ma in particolar modo delle culture del DIY, delle autoproduzioni e della controinformazione che negli anni Sessanta e Settanta hanno avuto una particolare esplosione. Tale cultura, figlia dunque del Sessantotto, ma, in generale, di un percorso comunitario millenario, stava, in senso proprio, facendosi movimento e andava per questo stroncata sul nascere. La narrazione che ha voluto tratteggiare gli hacker come criminali, se non luddisti, ha voluto annullare le pretese di un movimento, in parte, spontaneo, che rischiava di mettere in discussione il paradigma della proprietà privata nella produzione dei saperi. Purtroppo la potenza di fuoco immaginativa dell’apparato mediale statunitense, e dei suoi addentellati nostrani, e in grado di rendere colpa il sentimento di gioia che ti rende prossimo all’altro. Una colpa che richiede regole ferree. Ogni qual volta si doveva invocare una nuova legge che riportasse le nuove tecnologie nei binari della proprietà privata, come per magia, nell’agenda dei media apparivano giovani criminali del computer che avrebbero potuto far crollare la società, la civiltà, se non fosse stato imbrigliato il loro agire all’interno di regole precise che, guarda caso, riguardavano sempre, e in primo luogo, la difesa del copyright, in seconda battuta la privacy. Un diritto privato. Un diritto, privato. Dove privato e un verbo che indica ciò che giornalmente ci viene negato: un diritto; il diritto di essere prossimi l’uno con l’altro, di amarsi e rispettarsi. Questa e la regola del diritto privato nella società moderna. La regola e una legge che priva le persone del loro diritto fondamentale. Purtroppo le questioni retoriche poco interessano a chi perde il lavoro e a chi perde la possibilità di sentirsi rispettato nella società. Nella prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,54-58) si legge “il pungiglione della morte e il peccato e la forza del peccato e la Legge”. Laddove san Paolo voleva criticare i Farisei che, attraverso le loro leggi avevano dato al peccato la possibilità di esprimersi, la critica che si vuole muovere al capitalismo e quella di avere creato delle leggi, come quella sul copyright, che rendono l’uomo peccatore nel momento in cui cerca di essere umano.


CRIMES OF THE FITURE - David Cronenberg

Io ho paura di tutto, dunque sono (ancora io).

Nel mondo di domani, il tempo di Crimes of the Future è un futuro non si sa quanto distante ma in grado di farsi capire quando parla, un mondo plasmato dal collasso ambientale e dal degrado, qualcosa di molto interessante succede al corpo umano. Spariscono il dolore e il rischio di contrarre infezioni, questo è un bel problema, perché se non ci sono più sentinelle a misurare con precisione limiti e finitezza dell’esistenza, capire cosa significhi essere umano diventa molto più complicato. Ma non basta. La biologia impazzita, o magari soltanto pronta a fare un altro passo avanti, consente ad alcuni di realizzare l’impossibile (fino ad ora, impossibile). Una di queste persone è Saul Tenser. Saul è famoso in tutto il mondo perché il suo corpo ha sviluppato la capacità di produrre nuovi organi. Che si tratti di una benedizione o di una bomba tumorale da tenere sotto controllo, Saul vive una vita a scarto ridotto, assistito da prodigi della biotecnologia, letti e sedie senzienti in grado di adattarsi ai suoi parametri vitali e facilitargli le cose, per quanto è possibile. Saul è un performance artist e lavora in coppia con Caprice, star indiscusse della chirurgia da salotto, perché in un mondo in cui non c’è più spazio per dolore e infezioni, agire sul corpo umano ha tutto un altro sapore. Caprice opera da remoto, interviene sul mistero evolutivo di Saul sezionandone e asportandone i neo-organi per offrirli all’attenzione di un pubblico adorante e interessatissimo. Il corpo cambia e con lui il pensiero che gli sta attorno. Il gesto chirurgico ne ridefinisce

limiti e possibilità, lo carica di nuovo significato e si fa gesto artistico. La chirurgia è la nuova arte, ma è anche il nuovo sesso, come suggerisce lucidamente Timlin. Timlin lavora con Wippet nella National Organ Registry, agenzia governativa incaricata di tracciare i mutamenti evolutivi e catalogare i nuovi organi. Caprice ci porta Saul a “brevettarsi”. Timlin, nervosa e abbastanza inquietante, rimane soggiogata dalla provocazione artistica della coppia e non può fare a meno di notare come tutto questo gioco di corpi e di contatto, di mani affondate nella carne, esprima un’incredibile tensione erotica. Il film ci racconta la storia di un mondo nuovo. Nuovo sesso, nuova biologia, nuova arte, nuova chirurgia, nuova Buoncostume, come quella di cui fa parte il detective Cope. Il potere costituito guarda con sospetto i cambiamenti. Questa è la ragione per cui Cope contatta Saul, per convincerlo a infiltrarsi in una cellula di evoluzionisti. Il suo leader, Lang Dotrice, ha trovato il modo di convertire il proprio apparato digerente adattandolo a materiali plastici. Quello che in Lang era sforzo e manipolazione artificiale, per il figlio, Brecken, appare invece conseguenza di una sbalorditiva legge di natura. La cosa è tanto sconcertante che sua madre, inorridita dal vederlo mangiare un cestino dei rifiuti come se stesse gustandosi un panino, lo uccide, perché non vede umanità in lui. Crimes of
the Future riflette sul ruolo dell’arte nella società, sull’idea e il senso stesso di performance. Senza nominarle direttamente, allude a società e fragilità ambientali, al senso di precarietà che condiziona l’esistenza generale, parla di ciò che siamo diventati: la fluidità, l’abbattimento della separazione del genere, la coesistenza con l’ambiente inquinato, il genere umano ha quasi perso completamente la sensibilità corporea, diventando incapace di provare dolore. Senza più sofferenza fisica e senza più il rischio di contrarre infezioni, parte della popolazione è attratta dal piacere estremo di tagliarsi, aprirsi per poi ricucirsi, sottoponendosi anche alle più disparate operazioni chirurgiche per ridefinire la propria immagine di sé, diventando simultaneamente essere umano e opera d’arte. Trasformando la chirurgia nel nuovo sesso. Ma cosa è il corpo in Crimes of the Future? Anzitutto, non è più un corpo funzionante. Si sta evolvendo, e in modo tutt’altro che gradevole. Le mutazioni che subisce (o produce?) non sono empowerment sensoriali, anzi sembra che i risultati più tangibili di questa evoluzione per adesso siano stati la perdita del dolore, lo stravolgimento del piacere, e la crescente difficoltà a nutrirsi. I ‘nuovi organi’ che vediamo sono tutt’altro che utili: le orecchie aggiuntive del ballerino hanno funzione
cosmetica, ma non sentono; i tumori che le persone dicono di avere o si espiantano non hanno alcuna utilità per l’organismo. Trasformandosi, il corpo diventa sempre più debole. È un corpo che non prova più dolore né piacere come li conosciamo oggi – raramente vediamo mangiare senza dolore e non assistiamo mai a un coito vero e proprio. È un corpo per lo più passivo, immobile, e quando non immobile per lo meno remissivo. Sembra il corpo di un non-morto: non solo è quasi del tutto inerte, perde anche pochissimo sangue quando viene lacerato. Gli unici corpi che si nutrono senza problemi mangiano della plastica. Il primo di questi è proprio all’inizio del film: quello del bambino. Qua è necessario rilevare che il corpo del bambino è anche un corpo che viene presentato (e visto, dalla madre) come mostruoso: quando mangia la plastica. Mangia furtivamente, nascondendosi alla vista come una creatura che ha paura di essere predata. La madre stessa lo definisce come una creazione, come se non fosse un essere umano. Sembra quindi chiaro, a partire da questo e dalla proliferazione di personaggi e organizzazioni che vogliono ‘resistere’ alla trasformazione dei corpi, che il corpo stesso sia ormai qualcosa con cui difficilmente gli esseri umani vogliono scendere a patti. Avendo perso le sue funzioni primarie – piacere, dolore, nutrimento – è come se il corpo fosse diventato identico al mondo che abita e agli spazi che lo circondano: è lasciato alla deriva. Tutto il film ruota attorno alla difficile scesa a patti della carne e delle sue trasformazioni. «Nella storia dell’umanità e? facile osservare il tentativo costante di controllare i corpi degli altri, e attraverso questi la parola, l’espressione della loro individualità. E' sempre stata una questione politica. Il corpo è realtà, non c’è nulla di più intimo del corpo e dunque non ci sono film più intimi dei miei, politici com’è politica tutta l’arte. Tutto quello che ha a che fare con il corpo è primitivo, basico, essenziale. Venti anni fa, quando ho cominciato a scrivere questa sceneggiatura, tutto sembrava molto teorico. Nessuno si occupava di ambiente, mentre oggi tutti parlano di microplastiche che stanno mutando non solo il mondo intorno a noi ma anche il nostro dna. La domanda che mi faccio però è questa: invece di tentare di ripulire il mondo e i corpi di milioni di persone, impresa impossibile, perché non lavoriamo per fare in modo che gli esseri umani riescano a metabolizzarla? Da qualche tempo alcuni scienziati stanno sperimentando un tipo di plastica edibile, osservando il metabolismo di alcuni animali che riescono a mangiarla senza che questo danneggi le loro funzioni vitali» (David Cronenberg) 




Cafiero e Malatesta in giro per Roma

Nel corso degli anni Settanta dell’Ottocento, Carlo Cafiero ed Errico Malatesta furono più volte a Roma al fine di allargare alla neo capitale del regno la rete organizzativa dell’Associazione internazionale dei lavoratori (AIL), svolgendovi un ruolo di educazione e organizzazione tale da caratterizzare in senso libertario gli sviluppi futuri del socialismo romano. Un primo passaggio di Cafiero in città è segnalato nel novembre 1871 durante i lavori del XII congresso nazionale delle Società operaie affratellate. In questa occasione, egli non entrò in contatto diretto con il nascente movimento sindacale capitolino ma, attraverso i rapporti stabiliti durante l’assise con alcuni esponenti della sinistra repubblicana (Cesare Sterbini e Salvatore Battaglia), contribuì alla rottura tra le associazioni economiche cittadine e gli ambienti moderati fino ad allora prevalenti. Il cambio di orientamento fu segnato dalla nascita, avvenuta il mese successivo, di un primo raggruppamento d’area internazionalista, la Società della democrazia sociale, che contò fin da subito un centinaio di aderenti “tutti appartenenti alle infime classi”. Nella capitale, Cafiero tornò a metà giugno dell’anno seguente, in preparazione del congresso fondativo dell’AIL in Italia, che si sarebbe svolto a Rimini in agosto. Qui partecipò ad alcuni incontri con i garibaldini reduci della battaglia dei Vosgi tra cui Osvaldo Gnocchi Viani, il quale si fece promotore della prima sezione internazionalista cittadina,
la Lega operaia d’arti e mestieri industriali, sorta il mese successivo. In questo periodo, Cafiero sembrava intenzionato a trasferirsi in città per seguire più da vicino lo sviluppo dell’AIL nella capitale, ma il suo proposito fu vanificato dall’azione repressiva del prefetto che decretò lo scioglimento della Lega operaia e l’arresto di pressoché tutta la direzione, Viani compreso. Nuovi incontri si svolsero tra la primavera e l’inizio dell’estate del 1874 in vista dei moti di agosto cui, insieme a Cafiero, parteciparono anche Andrea Costa ed Errico Malatesta. Dopo alcune riunioni, fu quest’ultimo a seguire gli internazionalisti capitolini, con i quali organizzò un colpo di mano che, nell’ambito della preannunciata sollevazione, prevedeva di impossessarsi di 3.000 fucili della guardia nazionale custoditi all’Aracoeli e altri 400 custoditi in un deposito ai Castelli. L’esproprio delle armi fu tuttavia impedito dall’azione preventiva della pubblica sicurezza; ciò nonostante, le attività di Malatesta contribuirono a una maggiore definizione in chiave anarchica e insurrezionale del socialismo romano, con una prima presa di distanza all’impostazione evoluzionista caldeggiata da Viani. Insieme a Emilio Covelli, Cafiero e Malatesta tornarono nell’Urbe all’inizio
del 1876 con lo scopo di trasferirvisi in maniera definitiva avendo in animo di organizzare in città un convegno nazionale dell’AIL e costituirvi il centro del Comitato italiano per la rivoluzione sociale. Ospitati dapprima nell’abitazione dell’antiautoritario Emilio Borghetti, in via dei Pontefici, Malatesta si trasferì poi in via dell’Impresa, tra Montecitorio e Palazzo Chigi, mentre Cafiero si spostò all’inizio della Cassia, per stabilirsi infine nella centrale via del Pellegrino, trovando lavoro come bibliotecario alla Biblioteca “Vittorio Emanuele” per una paga di 3 lire al giorno (grossomodo quella di un muratore). Durante il loro soggiorno, entrambi – ma soprattutto Malatesta – si mossero per la possibile unificazione con i garibaldini e la parte più radicale del movimento repubblicano, ipotesi tuttavia vanificata dalla netta opposizione della massoneria, contraria alla fusione dei democratici con i socialisti. Rotta la possibilità di una collaborazione tra gli ambienti sovversivi, Malatesta partecipò alla costituzione del Circolo operaio, un raggruppamento distinto dalla proposta di Viani fino a quel momento prevalente, che giocò un certo ruolo nelle lotte dei disoccupati scoppiate in quei mesi. Le attività dei due esponenti sollevarono le apprensioni della pubblica sicurezza, oltremodo preoccupata per il possibile radicamento dell’anarchismo nella capitale politica del regno. La loro permanenza durò infatti assai poco: in seguito a una serie di arresti, Cafiero fu costretto a partire il 30 maggio, mentre Malatesta lasciò la città in fretta e furia il 18 giugno, mantenendo comunque i rapporti con gli ambienti romani che lo delegarono al congresso internazionale di Berna di fine ottobre. Cafiero e Malatesta tornarono a Roma all’inizio dell’anno successivo in vista dell’iniziativa insurrezionale del Matese prevista per la primavera seguente. Malatesta partecipò a una serie di riunioni riservate che si svolsero nelle campagne e nelle osterie fuori Porta Maggiore, all’epoca estrema periferia della città. Le discussioni non furono affatto facili; egli dové infatti affrontare le perplessità che
serpeggiavano tra gli ambienti romani che, in seguito al fallimento dei moti del 1874, pur confermando la loro adesione alla linea antiautoritaria simostrarono in un primo momento poco disponibili a nuove sortite sediziose. Superati gli indugi, sotto la supervisione di Cafiero e Malatesta venne infine organizzato un gruppo armato che avrebbedovuto raggiungere gli insorti del Matese, ma le cose andarono male: la spedizione fu intercettata dalla polizia all’uscita dalla città con l’arresto dei suoi componenti. Fu un duro colpo per i socialisti capitolini che, solo in novembre, poterono riorganizzarsi dando vita al Circolo internazionalista di Roma, un organismo dal carattere esplicitamente anarchico. Quello del 1877 fu un passaggio delicato, che si risolse in una più piena e convinta adesione dell’insieme dell’internazionalismo romano alla proposta libertaria. Negli anni seguenti, le altre correnti sorte in seno all’AIL, come quella socialista rivoluzionaria di Costa o quella operaista di Gnocchi Viani, trovarono infatti serie difficoltà a radicarsi nel tessuto sociale cittadino non riuscendo mai ad aprire una propria sezione locale. Grazie al lungo lavorìo di Cafiero e Malatesta, l’anarchismo continuò invece ad allignare tra il proletariato capitolino rappresentandone una tensione culturale, ancor prima che politica, che negli anni successivi si sarebbe rivelata lungamente egemone e chiaramente riconoscibile. 



giovedì 8 settembre 2022

Il primo sindacalismo rivoluzionario

L'anarchismo dell'800 diventò storicamente importante quando entrò nell'Internazionale Operaia. Noi sappiamo che la I° Internazionale aveva carattere eminentemente sindacale, essendo una sorta di aggregazione di diverse società operaie. Essa per origine, struttura, programma, era interamente anarchica. Il 28 settembre 1864, alla St. Martin's Hall, furono i proudhoniani e Varlin a presentare la risoluzione in cui veniva proposta la fondazione di una associazione mondiale dei lavoratori. E Bakunin, già prima di entrarvi aveva già pensato alla possibilità concreta di costruire una organizzazione del genere. Il principio, il motto fondamentale "l'emancipazione dei lavoratori ad opera dei lavoratori stessi", la struttura federalistica, esprimevano il carattere libertario e proletario di questo grande organismo di massa. I governi ne avevano grande timore, tanto che addebitavano alla Internazionale ogni moto spontaneo di popolo. Un altro fatto ebbe grande importanza: il marxismo venne apertamente denunciato come ideologia reazionaria, e una risoluzione del Congresso di S. Imier, successivo a quello dell'Aja, affermò che "la distruzione di ogni potere politico è il primo compito del proletariato". In questo modo la frangia più cosciente dei lavoratori manuali affermava l'autonomia del proletariato non solo rispetto alla borghesia, come aveva fatto precedentemente, ma anche rispetto agli interessi della piccola borghesia, espressi dalla scuola socialdemocratica tedesca. Queste dichiarazioni di principio fatte a congressi operai mostrano come per gli internazionalisti non esistesse una netta frattura fra politico ed economico. È vero che lo stesso Bakunin e i libertari del tempo tendevano a rifiutare il termine "politica" ma questo perché all'espressione essi davano il significato di "azione tesa verso la conquista del potere politico". Non si intende qui fare una prolungata indagine storica, ma solo mostrare come le sezioni operaie-sindacali dell'A.I.T. non escludevano affatto di andare oltre la lotta cosiddetta economica. Questo per confutare le accuse di "economicismo" mosse agli anarchici. Questo concetto lo ritroveremo nel pensiero di Malatesta, che tra l'altro ebbe ad affermare in "Umanità Nova" del 1921: "i sindacalisti, quantunque in teoria amino dire che il sindacalismo basta a se stesso, debbono poi nella pratica o pensare ad impadronirsi dello stato, e diventano socialisti, o pensare a distruggerlo, e diventano anarchici". Viene espressa così l'intima continuità di pensiero che lega l'anarchismo dell'800 e del '900: il rifiuto di una concezione del sindacalismo come semplice lotta al padrone, senza affrontare il problema dello stato, nel senso della sua distruzione.


UNA COPPIA DI SOLITARI - Greg Trooper

I tuoi sentimenti sono feriti

Mentre torni di nuovo dal lavoro

Anche i miei sono feriti


Li hai feriti tu.


Abbiamo urlato come bambini

Per le piccole stupide cose che abbiamo fatto

Ti ho fatta piangere

E ho preso a pugni il cielo

Siamo andati avanti per così tanto

Facendo finta che non ci fosse nulla di sbagliato

Siamo scesi sempre più in basso

E ci siamo scordati dell’amore che avevamo trovato


Lavori, fino a farti intorpidire le dita

Da quando sorge il sole, a quando tramonta

Io sono via, da qualche parte

E noi facciamo una coppia di solitari

I tuoi sentimenti sono feriti

E ora non sai cosa sarebbe peggio

Se vivere separati, o semplicemente infelici


Potrebbe esserci qualcosa che non abbiamo trovato

Possiamo parlare di come ci sentiamo

Le lacrime potrebbero cadere, potremmo perdere la pazienza

Ma potremmo provare a riconoscerci

Prima di dirci addio.


Serge Latouche e la decrescita

Il movimento per la decrescita si sviluppa nel corso dell'ultimo ventennio, inizialmente in Francia. Il teorico più noto, come molti sanno, è il francese Serge Latouche di cui sono stati tradotti in italiano molti testi. Egli sostiene che la decrescita è innanzitutto uno “slogan”, una “parola bomba” il cui scopo è “sottolineare con forza la necessità dell'abbandono della crescita illimitata, obiettivo il cui motore è essenzialmente la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale”. L'obiettivo polemico dunque è la crescita capitalistica giudicata folle e inutile. Per questo motivo, secondo Latouche, bisogna abbandonare definitivamente l'obiettivo della crescita. Poiché lo sviluppo non è né sostenibile né durevole, dobbiamo “demistificare e demitificare il grande racconto occidentale della crescita, del progresso, con la rivoluzione industriale e i miracoli della tecnologia, racconto che ha largamente contribuito alla formattazione delle menti secondo i parametri della società dei consumi”. Tutto quanto sostenuto dai teorici della decrescita inevitabilmente contrasta con le esigenze del Capitale, che solo in un sistema economico in espansione può produrre profitto da accumulare, e dello Stato moderno, che sulla promessa truffaldina di una ricchezza materiale in continua crescita fonda il proprio consenso sociale. Il dibattito però sui mezzi e sugli strumenti da adottare da parte del movimento della decrescita è ancora del tutto aperto e per nulla chiaro, mentre la critica alle forme tradizionali della politica e del potere è sviluppata soprattutto per iniziativa della componente eco-femminista presente all'interno del movimento. In ogni caso vi sono recenti tentativi di aprire anche in ambito libertario e anarchico la discussione sull'argomento “decrescita” e di trovare punti di incontro tra questa teoria e il movimento anarchico e libertario. Alcuni esponenti della decrescita infatti includono esplicitamente la sinistra antiautoritaria fra le radici storiche del loro movimento, e soprattutto in ambito francese si sta approfondendo la tematica attraverso laboratori sulla decrescita organizzati dalla Fédération anarchiste. È interessante infine ricordare il saggio di Latouche apparso sul primo numero della nuova Libertaria (L'anarchismo oggi. Un pensiero necessario, Himesis, 2013), intitolato “Stato e rivoluzione (della decrescita)” che si conclude con Né anarchismo, né “democratismo”, il che forse dice più di tanti dibattiti.