I graffiti esistono da sempre, qualcuno stenta a definirli un fenomeno antropologico; fanno parte di una cultura che ha saputo fondare i propri principi su poche cose ben distinte. Primo tra tutti il mezzo: la bomboletta. Secondo: l’ambiente; i graffiti e le scritte più in generale si sviluppano in contesti urbani che offrono muri, superfici, mezzi e occhi i quali, volenti o nolenti, passata la notte dovranno fare i conti con il segno che qualcuno ha deciso di lasciare lì. Terzo: il coraggio. Pare poca cosa a chi non si è mai trovato a correre col batticuore alla luce dei lampeggianti in fondo alla via. Pare poca cosa al cittadino che nemmeno se le immagina certe dinamiche, perché bisogna essere sinceri, per prendere in mano una bomboletta e fare propria una superficie serve del coraggio. Non è soltanto una questione di trasgressione e di possibili problemi con la legge; scrivere sul muro di una città e farlo in maniera spontanea è una provocazione allo spazio pubblico e uno sbeffeggiamento del perbenismo dilagante. Per ultimo il concetto di identità, capace di superare se stessa, di celarsi dietro all’anonimato o uno pseudonimo in un mondo che ci vuole etichettati, schedati e catalogati secondo tabelle e differenziazioni. Le ragioni di queste azioni, note come “vandalismo”, sono svariate e non sentiamo il bisogno di distinguerle in classi più o meno nobili. Ciò che ci accomuna nello svolgere questo ragionamento è il disprezzo per una società cieca che storce il naso davanti a del colore o ad una scritta, ma che non proferisce parola su ciò che la riguarda fatti alcuni passi lontano dal muro di casa propria. Il solito discorso del proprio cortile e dei propri polli, il solito “fallo sul muro di casa tua”. E invece no, farlo è impossessarsi dello “spazio pubblico” e privato, dilagare ed espandersi, riprendersi lembi di agibilità e tirarli con tutte le proprie forze, opporsi alla cementificazione forzata di una società che pensa solo ad evolvere e che tende ad escludere. Da sempre i muri parlano per chi non ha voce sufficientemente alta in un mondo di prepotenti. A tal proposito il vandalismo diventa un vero e proprio stile di vita di generazioni disilluse, che vogliono riprendersi spazio, pronte a rimettere in discussione il concetto di proprietà privata. Così una scritta su un muro diventa una cosa di tutti, un ragionamento comune per chi ne accetta e condivide le pratiche. Un’occasione di esprimersi per chi ha il coraggio di sentirsi vivo e vuole tornare ad essere padrone delle proprie scelte, delle proprie azioni. Per la società e l’autorità il vandalismo diminuisce il valore degli immobili, disturba, dà fastidio perché interrompe il silenzio assordante e la monotonia nella quale stiamo scivolando. I muri puliti sono sinonimo di civiltà, di buona cittadinanza e convivenza. Sono sinonimo di uno stile di vita remissivo e alienato che ci porta a scegliere passivamente, a dividerci e frammentarci fino a farci restare soli. Il vandalismo e il teppismo si oppongono da sempre ad una logica fredda che ci vuole in fila e pazienti, fornendo un modo concreto di stare insieme e del poter fare affidamento sui propri fratelli e sulle proprie sorelle, in ogni situazione, senza farsi intimorire.
Bodo’s Project è un progetto di comunicazione “altra” per la creazione e la circolazione di scritti, foto e di video geneticamente sovversivi. La critica radicale per azzerare la società della merce; la decrescita, il primitivismo, la solidarietà per contrastare ogni forma di privatizzazione iniziando dall’acqua. Il piacere e la gioia di costruire una società dove tutti siano liberi ed uguali.
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giovedì 26 ottobre 2023
COMPLEANNO TRA LE SBARRE – Emma Goldman
Trascorsi il mio cinquantesimo compleanno nel penitenziario del Missouri. E quale posto poteva essere più adatto a una ribelle per celebrarvi un simile anniversario? Cinquant'anni! Mi sembrava di averne cinquecento sulle spalle, tanto la mia vita era stata colma di avvenimenti. Quando ero in libertà quasi non mi ero accorta del tempo che trascorreva, forse perché avevo trasposto la mia vera nascita nel 1889 quando, all'età di vent'anni, ero arrivata per la prima volta a New York. Come il nostro Sasha, il quale scherzando era solito togliere dalla propria età i quattordici anni passati al Western Penitentiary, allo stesso modo anch'io solevo dire che i miei primi vent'anni non andavano conteggiati, dato che non li avevo quasi vissuti. Tuttavia la prigione, e ancor di più la povertà esistente in tutte le nazioni, la selvaggia persecuzione dei radicali in America, le torture cui ovunque era sottoposto chi protestava contro le condizioni sociali, tutto questo aveva su di me l'effetto di farmi sentire il peso degli anni. Lo specchio mente solo a chi desidera essere illuso. Quei miei cinquant'anni, trenta dei quali trascorsi in prima linea, avevano dato qualche frutto o erano stati soltanto una vana battaglia donchisciottesca? Tutti i miei sforzi erano serviti solo a riempire il vuoto interiore, a dar sfogo al mio temperamento turbolento, oppure il corso cosciente della mia vita era stato dettato dall'ideale? Erano questi i pensieri e i dubbi che mi turbinavano in testa il 27 giugno 1919 mentre spingevo il pedale della macchina da cucire.
Lo spazio urbano come festival della vita quotidiana
Lo spazio urbano va riducendosi a pura facciata, ora il motore ideologico della trasformazione urbana è l’immagine che si promuove – il marchio. Orientato sulle direttrici dell’interesse privato, l’agglomerato post-moderno si rivolge all’esterno per attrarre quanti più investimenti, e turisti, possibile. Deve impressionare il visitatore ignaro e fare colpo sugli uomini d’affari con un’immagine appariscente. Per questo l’équipe dirigente intraprende, in modo congiunto con le imprese private e i pezzi grossi della politica, operazioni di valorizzazione del patrimonio culturale e monumentale, creando una scenografia roboante (museificazione dei centri storici, promozioni immobiliari esclusive, strade commerciali pacchiane, complessi monumentali “d’autore”, edifici singolari, zone verdi desertificate), e trasformando in festival la vita quotidiana con eventi promozionali, “performances”, congressi di ogni genere e fiere commerciali. In questo modo s’imprime rapidamente un marchio su uno spazio segmentato e freddo, asettico, trasparente, disseminato di frammenti fittizi, paesaggi simulati e architettura petulante, come fosse un parco tematico o uno studio cinematografico. Uno spazio-franchigia privo di tensioni, disciplinato, profilattico, inumano, la cui sostanza è una miscela di falsità, voracità e cattivo gusto. Un arredo volgare che impedisce la liberazione di ciò che è latente nella vita quotidiana, in cui la servitù è volontaria e il ballo della rassegnazione conta un pubblico assiduo e numeroso. Lo scenario ideale per chi trae i benefici della globalizzazione. L’isolamento sociale e spaziale che deriva da un urbanesimo adattato alla necessità di crescita dell’economia coincide con il progresso della digitalizzazione, vale a dire al progresso stesso. Non c’era bisogno di una crisi sanitaria per impoverire ancor più le relazioni sociali, dato che il confinamento non è stato mai una novità. Strumenti di separazione come l’automobile, la televisione e il computer ai loro tempi, o i tablet e i telefonini oggi, hanno un ruolo importante nella distruzione dei vincoli affettivi e dei costumi sociali, per non parlare di ciò che provocano in quanto a meccanizzazione dei comportamenti delle persone. Il ricavo di plusvalore prospera tanto sull’adattamento della natura umana alle esigenze tecnologiche e alla degradazione ambientale, quanto sulla scomparsa della comunicazione diretta, delle radici locali e della socialità comune. Eppure, l’utopia barbara del tardo capitalismo non ha ancora trionfato. Molte contraddizioni la rendono irrealizzabile e la conducono all’auto-annichilimento. Non ha futuro. Ad ogni modo, i contro-progetti di resistenza dovranno sgombrare e ripulire molto terreno affinché l’urbanesimo della sottomissione, della robotizzazione e della nevrosi vada irrimediabilmente in rovina e si apra la strada a uno spazio di libertà, autonomia e rivolta. Il fatto che i rivoltosi di oggi si preoccupino di abbozzare un modello di città conseguente, contribuirà molto più di quanto si possa pensare a configurare questo spazio. (Miguel Amorós)
giovedì 19 ottobre 2023
COSPIRARE
«Cospirare» è un verbo eminentemente politico. Significa mettersi insieme, unire le proprie forze per abbattere un potere costituito. Verbo, non a caso, molto machiavelliano. «Cospirare» è un’azione e una volontà politiche che si costruiscono spesso nella penombra di incontri e accordi segreti. Nella etimologia della parola la dimensione politica del suo significato è, forse, ancora più densa, fin quasi a divenire cosmica: il latino «conspirare», composto di con- e «spirare» («respirare»), rinvia all’idea di un soffio vitale che diviene comune: precordi, pensieri, sussurri, l’aria stessa dei nostri polmoni, tutto quello che ci è intimamente proprio viene con-diviso. Si cospira quando riusciamo a ragionare, respirare, sentire insieme con altri – ieri sconosciuti, oggi amici, compagni – quasi allo stesso tempo, come in una danza fra animali costruttori. Non è necessario, tuttavia, fare. Anzi. Bisogna rendere improduttivo il fare per portarlo alla scomparsa. Direi che «cospirare» è un gesto destituente perché rende inservibile il gesto e l’oggetto che ne deriva. In questo senso, contro Machiavelli, non si tratta di cospirare in silenzio (per congiurare, assaltare e prendere il potere), ma di «cospirare il silenzio», cioè: concorrere «con molti, di lingue e terre diverse» a creare le situazioni affinché si produca il silenzio, si rinunci alla parola e al nome, si spengano le luci (del varietà, delle pubblicità, dello spettacolo), si disinneschino, insomma, i vari dispositivi del potere, lasciandolo vuoto, sospendendolo, «Lasciare sempre gli spazi vuoti, conservare sempre il soffio». Infine, in questa breve ricerca lessicale, «cospirare», nel linguaggio scientifico, si dice di linee, rette, forze, moti che tendono, convergono, si dirigono verso un medesimo punto.
L'IMPORTANZA DEL SESSO – Emma Goldman
Un giorno ricevetti un invito dai Kropotkin, e partii con Mary Isaak alla volta di Bromley. Questa volta c'erano anche la signora Kropotkin e Sasha, la figlioletta. Piotr e Sofia Grigorevna ci accolsero con affetto e cordialità e parlammo dell'America, delle attività del movimento in quel paese e della situazione in Inghilterra. Piotr era venuto negli Stati Uniti nel 1898, ma a quell'epoca io ero in viaggio, sulla costa occidentale, e non avevo potuto presenziare alle sue conferenze. Sapevo, tuttavia, che avevano riscosso un notevole successo e che Piotr aveva lasciato di sé un'ottima impressione. La partecipazione del pubblico era stata notevole e gli incassi erano serviti a rimettere in sesto Solidarity e a ridare vitalità al movimento. Piotr era particolarmente interessato al mio giro di conferenze nel Middle West e in California. «Devono essere zone eccellenti», osservò, «se hai potuto parlare nelle stesse località per tre volte di seguito». Confermai che lo erano e aggiunsi che gran parte del successo che avevo ottenuto in California era dovuto all'aiuto del gruppo di Free Society. «Stanno facendo un ottimo lavoro, infatti», concordò calorosamente Piotr. «Ma potrebbero fare molto di più, se solo non sprecassero tanto spazio per scrivere di sesso». Non ero d'accordo, e ingaggiammo una infuocata discussione sull'importanza che gli anarchici dovevano attribuire al problema del sesso. Secondo Piotr, l'uguaglianza della donne con l'uomo non aveva nulla a che vedere con il sesso; era solo questione di intelligenza e di cervello. «Quando la donna avrà un'intelligenza pari a quella dell'uomo, e ne condividerà le idee sociali, solo allora sarà ugualmente libera». Ci eravamo infervorati entrambi, e parlavamo in tono concitato. Sofia, che se ne stava silenziosa a cucire un vestitino per la figlia, cercò più volte di calmarci, ma invano. Percorrevamo la stanza a grandi passi, sempre più agitati e ciascuno strenuamente arroccato sulle sue posizioni. Alla fine, tagliai corto dicendo: «E va bene, caro compagno, quando avrò la tua età, forse, il problema del sesso non sarà più tanto importante per me. Ma adesso lo è, ed è enormemente importante per migliaia, addirittura per milioni di giovani». Piotr tacque di colpo, poi un sorriso divertito gli illuminò il viso dolce e buono. «E' curioso davvero», disse, «non ci avevo pensato. Dopo tutto, forse hai ragione tu». E mi guardò con affetto, ammiccando allegramente.
LA NECESSITÀ DI ESSERE CRITICI
Poiché la marcia verso l'annientamento globale prosegue, la società diventa più insalubre, perdiamo sempre più controllo sulle nostre vite e non riusciamo a opporre una resistenza significativa alla cultura della morte, è indispensabile essere estremamente critici nei confronti dei movimenti "rivoluzionari" del passato, delle lotte attuali e dei nostri stessi progetti. Non possiamo ripetere in eterno gli errori del passato o rimanere ciechi davanti alle nostre manchevolezze. Il movimento ambientalista radicale è pieno zeppo di azioni simboliche e campagne su singoli problemi e l'ambiente anarchico è infestato da tendenze "di sinistra" e liberali. Entrambi continuano a discutere proposte "attiviste" per lo più insignificanti e raramente tentano di valutare oggettivamente la loro (in)efficacia. Spesso sono il senso di colpa e lo spirito di sacrificio, anziché il desiderio di liberazione e libertà, a guidare questi buoni samaritani sociali, mentre procedono lungo il corso tracciato dai fallimenti che li hanno preceduti. La Sinistra è una piaga purulenta sul culo dell'umanità, gli ambientalisti non sono riusciti a preservare nemmeno una frazione delle aree selvagge e gli anarchici raramente hanno qualcosa di stimolante da dire, tanto meno da fare. Alcuni potrebbero sostenere che la critica è negativa perché "crea divisioni", ma qualsiasi prospettiva veramente radicale comprenderebbe la necessità dell'analisi critica per cambiare le nostre vite e il mondo in cui abitiamo. A nulla approdano coloro che desiderano soffocare ogni dibattito fino a "dopo la rivoluzione", limitare qualsiasi discussione a chiacchiere vaghe e insignificanti e reprimere le critiche sulla strategia, le tattiche o le idee, e possono solo tenerci a freno. Un aspetto essenziale di qualsiasi prospettiva anarchica radicale deve essere la necessità di mettere tutto in discussione, comprese le nostre idee, i nostri progetti e le nostre azioni.
giovedì 12 ottobre 2023
MANCATA PROSTITUTA - Emma Goldman
Mi svegliai il mattino seguente sapendo esattamente come avrei trovato i soldi per Sasha. Mi sarei prostituita. Mi stupii di una simile idea e la ricollegai al romanzo di Dostojevskj, «Delitto e castigo», che mi aveva profondamente colpita. Ero rimasta impressionata soprattutto dal personaggio di Sonja, la figlia di Marmeladov che era diventata una prostituta per mantenere i fratellini e le sorelline e per alleviare le sofferenze della matrigna tisica. Vidi come in sogno Sonja, sdraiata nel suo lettuccio, con la faccia rivolta al muro e le spalle tremanti. Avrei seguito più o meno la sua strada. Sonja, quella ragazza così sensibile, aveva potuto vendere il proprio corpo; perché non avrei dovuto farlo anch'io? La mia causa era ancor più grande della sua: era Sasha - il suo grande gesto - il popolo. Ma sarei stata capace di farlo, di andare con un estraneo - per soldi? Il solo pensiero mi diede il voltastomaco. Affondai la testa nel cuscino per non vedere la luce. «Debole, codarda», mi disse una voce interiore. «Sasha sta per offrire la vita e tu esiti a dare il tuo corpo, miserabile vigliacca!». Mi ci vollero parecchie ore per riprendere il controllo di me stessa. Quando mi alzai dal letto ero decisa. Il problema principale era adesso quello di essere sufficientemente attraente agli occhi di un uomo che cerca avventure con ragazze di strada. Mi guardai allo specchio e esaminai il mio corpo. Il viso era un po' affaticato, ma avevo una bella carnagione. Avrei potuto fare a meno di truccarmi e i miei capelli ondulati e biondi si intonavano molto bene agli occhi azzurri. Pensavo di essere un po' troppo larga di fianchi, per la mia età; avevo appena ventitré anni. Ma in fondo ero di origine ebraica. Inoltre, avrei indossato un corsetto e con i tacchi alti avrei potuto sembrare più slanciata (non avevo mai indossato niente del genere prima). Corsetto, scarpette con tacchi alti, biancheria intima raffinata - dove avrei trovato il denaro per tutto ciò? Avevo un vestito di lino bianco con ricami alla moda del Caucaso. Avrei comperato della stoffa leggera color carne e mi sarei cucita da sola la biancheria. Sapevo di un negozio in Grand Street che aveva dei buoni prezzi. Mi vestii in fretta e andai dalla cameriera di casa, che aveva simpatia per me, e mi feci prestare cinque dollari. La donna me li diede senza far domande. Uscii a fare acquisti e quando tornai a casa mi chiusi in camera. Non volevo vedere nessuno. Ero molto indaffarata a preparare il mio corredo e a pensare a Sasha. Che cosa avrebbe detto? Sarebbe stato d'accordo? Sì, ne ero sicura. Aveva sempre affermato che il fine giustificava i mezzi, che il vero rivoluzionario non doveva mai indietreggiare di fronte a tutto ciò che potesse servire alla Causa. Sabato sera, 16 luglio 1892, camminavo avanti e indietro per la 14ma Strada ed ero una delle tante ragazze che così spesso avevo visto praticare il mestiere. All'inizio non mi sentivo nervosa, ma quando feci caso agli uomini che passavano, alle allusioni volgari, al loro modo di abbordare le ragazze, provai una stretta al cuore. Avrei voluto fuggire, tornare nella mia stanza, levarmi di dosso quegli abiti vistosi e a buon mercato, lavarmi. Ma una voce mi diceva all'orecchio: «Devi resistere; Sasha - il suo gesto - tutto è perduto se fallisci!». Continuavo a passeggiare, ma qualcosa più forte di me mi faceva affrettare il passo ogni volta che mi si avvicinava un uomo. Uno di loro fu particolarmente insistente e io scappai via. Verso le undici ero completamente esausta. I piedi mi dolevano per via dei tacchi alti, la testa mi faceva male ed ero sul punto di scoppiare in lacrime per la fatica e il disgusto, per l'incapacità di decidermi a realizzare ciò che mi ero prefissa. Feci uno sforzo. Mi fermai all'angolo tra la 14ma Strada e la Quarta Avenue, vicino alla banca, e decisi che sarei andata con il primo uomo che mi avesse invitata. Un tipo alto, distinto e ben vestito, si avvicinò: «Vuoi bere qualcosa, ragazzina?» disse. Aveva i capelli bianchi, era sulla sessantina, ma aveva il viso rubicondo. Risposi: «Va bene». Mi prese sotto braccio e mi condusse in una vineria di Union Square, dove spesso ero stata con Most. Quasi urlai: «Non lì, per favore, non lì». Lo accompagnai all'ingresso posteriore di un locale tra la 13ma Strada e la Terza Avenue. C'ero stata una volta di pomeriggio a bere una birra ed era un posto pulito e tranquillo. Quella sera il bar era molto affollato e trovammo a stento un tavolo. L'uomo ordinò da bere. Avevo la gola secca e chiesi un grande bicchiere di birra. Nessuno dei due parlava. Ero consapevole che l'uomo mi stava scrutando il viso e il corpo e sentivo crescere dentro di me il risentimento. Subito l'uomo chiese: «Sei nuova del mestiere, vero?». «Sì, è la prima volta - ma come ve ne siete accorto?». Rispose: «Ti ho guardata quando mi sei passata davanti». Poi mi disse di aver notato la mia espressione tormentata e che acceleravo il passo quando mi si avvicinava un uomo. Aveva capito che ero inesperta. Qualsiasi fosse stata la ragione che mi aveva spinta sul marciapiede, aveva capito che non era certo per facilità di costumi o per amore dell'avventura. Dissi senza riflettere: «Ma migliaia di ragazze lo fanno per necessità economiche». Mi guardò sorpreso: «Dove l'hai presa questa grinta?». Avrei voluto dirgli tutto sulla questione sociale, sulle mie idee, su chi e che cosa fossi, ma mi trattenni. Non dovevo rivelare la mia identità; sarebbe stato troppo pericoloso se avessero saputo che Emma Goldman, l'anarchica, era stata trovata ad adescare uomini nella 14ma Strada. Che notizia succulenta sarebbe stata per la stampa! Disse che non lo interessavano i problemi economici e non gli importavano le ragioni delle mie azioni. Voleva solamente dirmi che non si ricavava nulla dalla prostituzione se non ci si era portate. E continuò: «Tu non ci sei portata, ecco tutto». Tirò fuori un biglietto da dieci dollari e me lo mise davanti. «Prendi questi soldi e va' a casa», mi disse. «Ma perché mi date del denaro se non volete che venga con voi?» chiesi. «Beh, giusto per coprire le spese sostenute per agghindarti in quel modo», replicò. «Il tuo vestito è molto carino, anche se non va con quelle scarpe e quelle calze da quattro soldi». Rimasi senza parole per lo stupore.
Stavo inventando la vita
Ci si sente come rovesciati e ribaltati dall’altro lato delle cose e non si capisce più il mondo che si è appena lasciato. Dico: ribaltati dall’altro lato delle cose, e come se una forza terribile vi avesse dato la possibilità d’essere restituiti a ciò che sta dall’altro lato. Non si avverte più il corpo che si è lasciato e che vi garantiva nei suoi limiti, in cambio ci si sente molto più felici d’appartenere all’illimitato che a se stessi, perché si capisce che ciò che era noi ci è giunto dalla testa di questo illimitato, l’infinito, e che lo vedremo. Ci sentiamo in una sorta di onda gassosa e che emette da ogni parte un crepitio incessante. Sostanze uscite da qualcosa che po-trebbe essere la vostra milza, il fegato, il cuore o i polmoni si sprigionano incessantemente e scoppiano in questa atmosfera incetta fra il gas e l'acqua, ma che sembra richiamare a sé le cose e ordinar loro di riunirsi. [...] E tutta la serie di lubrichi fantasmi proiettati dall’inconscio non possono più ostacolare il soffio vero dell'UOMO, per il fatto stesso che il Peyote è l'UOMO non già nato, ma INNATO, e con lui la conoscenza atavica e personale è interamente animata e dispiegarsi. Lei sa ciò che è buono per lei e ciò che non le serve a nulla: e quindi i pensieri e i sentimenti che può accogliere senza pericolo e con profitto, e quelli che sono nefasti per l'esercizio della sua libertà. Sa soprattutto fin dove arriva il suo essere, e ?n dove non è ancora arrivata. NON SI HA IL DIRITTO Di ANDARE SENZA PRECIPITARE NELL’IRREALTÀ, IL NON-FATTO, IL NON-PREPARATO. (Antonin Artaud1936)
Dichiarazione - Georges Moustaki
Io dichiaro lo stato di felicità permanente
E il diritto di ciascuno ad ogni privilegio
Dico che il dolore è cosa sacrilega
Quando c’è abbondanza di rose e di pane
Io contesto la legittimità delle guerre
La giustizia che uccide, la morte che punisce
Le coscienze che dormono rimboccate a letto
La civilizzazione portata dai mercenari
Guardo morire questo secolo vecchio
Un mondo diverso nascerà dalle sue ceneri
Ma non basta più solamente aspettare
Ho aspettato già troppo, lo voglio ora
Che la mia donna sia bella ogni ora del giorno
Senza doversi nascondere nel fard
Che nessuno mi obblighi a rimandare a più tardi
La voglia che ho adesso di fare l’amore
Che i nostri figli siano uomini e non adulti
E che siano quello che volevamo essere
Che ci siano fratelli, compagni e complici
E non due generazioni che s’insultano
Che i nostri padri alla fine si emancipino
E che trovino il tempo di carezzare le loro donne
Dopo tutta una vita di sudore e di pianto
E due «dopoguerra» che non erano «la pace»
Io dichiaro lo stato di felicità permanente
Non per mettere parole assieme alla musica
Senza dove aspettare tempi messianici
Senza che sia votato in alcun parlamento
Io dico che è tempo di essere responsabili
Senza rendere conto a niente e a nessuno
Per trasformare il caso in destino
Soli a bordo, senza padroni, senza dio e senza diavolo.
E se vuoi venire passa la passerella
C’è posto per tutti e per ognuno
Dobbiamo ancora fare tanta strada
Per andare a veder brillare una nuova stella
Io dichiaro lo stato di felicità permanente.
giovedì 5 ottobre 2023
SUKEBAN
Il termine sukeban deriva dall'unione delle parole suke (ragazza) e banchò (capo) e se all'inizio si riferiva solamente alle leader delle gang, ha poi iniziato a rappresentarle in senso globale, soprattutto presso i mass media. Quando si parla di sukeban si indica un fenomeno di delinquenza giovanile con protagoniste sole ragazze che ebbe la sua origine negli anni Sessanta. Quelle che dapprima si presentavano come gang scolastiche ribelli in conflitto con le norme scolastiche particolarmente restrittive, in seguito si trasformarono in gruppi di maggiore rilevanza sociale coinvolti in atti criminali che non potevano essere ignorati, e che mobilitarono forze di polizia ed istituzioni. In ambito sociale, il termine comincio ad essere utilizzato negli anni Sessanta per definire i membri di una banda criminale femminile (l'equivalente di banchò utilizzato per identificare i membri delle gang maschili), e usato per identificarne sia il capo, sia, in seguito i membri di una gang in generale. Nel corso degli anni Sessanta, la criminalità giovanile femminile (con annessi episodi di aggressioni di gruppo, taccheggio, e linciaggio), aumento a livelli esponenziali raggiungendo l'apice piu alto del periodo postbellico, con un tasso corrispondente a meno del 10% nel 1965 che sali nel corso degli anni Settanta fino a raggiungere il 19% nel 1981. Fumare nei bagni della scuola fu uno dei primi segni di delinquenza a diffondersi fra le ragazze, ma ben presto le gang cominciarono a proliferare con l'efficacia di un virus e a costruire la propria gerarchia degna di una vera banda criminale. Il fenomeno sukeban raggiunse una popolarità talmente elevata da toccare una quota di ventimila membri. Una delle piu pericolose sukeban mai esistite: K-Ko The Razor, leader a capo di una gang di cinquanta ragazze. Il nome di K-Ko the Razor derivava dalla scelta della sua arma personale, un rasoio, per l'appunto, e divento una leggenda. Le sukeban furono una vera e propria anomalia nella cultura criminale sessista e maschilista giapponese: nella yakuza infatti la componente femminile è praticamente inesistente e quelle poche presenti non hanno alcuna autorità. Ma gli anni '70 furono la culla di femminismo e di idee liberali, quindi anche le donne si sentirono libere di essere promiscue, ardimentose e violente come gli uomini. Le ragazze volevano dimostrare che la femminilità e la forza non si escludevano a vicenda e per questo portavano con orgoglio l'uniforme scolastica alla marinaretta, la classica "fuku" però modificata. La gonna divenne insolitamente lunga, in segno di protesta contro il ritratto sessualizzato delle adolescenti che andava all'epoca per la maggiore; era uno strumento di protezione con cui le ragazze dichiaravano che la loro esistenza non era legata ai desideri degli uomini. I mocassini furono sostituiti dalle sneakers Converse; la camicia a volte era tagliata per esporre l'ombelico, un fazzoletto da marinaio era annodato sotto il collo e i calzini erano colorati e morbidi. Il trucco poteva esserci ma le sopracciglia dovevano essere sottilissime e i capelli erano vistosi, colorati oppure con la permanente. E sotto a tutto questo, le sukeban nascondevano rasoi e catene. E anche dopo aver finito il liceo, continuavano a proclamare l'appartenenza al loro stato di sukeban ricamando rose e messaggi anarchici sulla stoffa, prendendo ispirazione dal movimento punk britannico.
Yol – Yilmaz Guney
Dopo il colpo di stato che nel 1980 ha consegnato la Turchia a una dittatura militare, cinque detenuti in libertà vigilata viaggiano per il paese. Yusuf smarrisce i documenti di identità, e viene presto arrestato. Seyit, giunto a casa, apprende che la moglie Ziné, fuggita in un bordello dopo l'incarcerazione del marito, è ora tenuta in prigionia dai famigliari in una casa in montagna. Costoro la affidano a Seyit perché la uccida, riscattando l'onore perduto. Diviso fra l'odio e la pietà, l'uomo la conduce a piedi su un ghiacciaio, insieme al figlio, e ne provoca la morte per assideramento. Mehmet, responsabile della morte del cognato (autista in una rapina a una gioielleria, scappò abbandonandolo dopo aver udito gli spari della polizia), torna dalla moglie e viene scacciato dai parenti della donna, che però fugge con il marito. Sul treno, dopo che i due coniugi sono scampati a un linciaggio per essersi chiusi insieme nella toilette, la donna viene uccisa dal fratello minore, che giustizia anche Mehmet. Mevliit, che si ritiene un uomo moderno, va a trovare la fidanzata e le propone di sposarlo, pre-scrivendole doveri coniugali che implicano una cieca obbedienza al marito. Invece di avere rapporti sessuali con lei, si reca in un bordello. Il curdo Omer trova il suo paese natale oppresso dall'esercito turco. Suo fratello, militante nelle schiere dei ribelli, viene ucciso: e Omer, in ottemperanza alle regole della tradizione, diventa il marito della vedova, rinunciando a sposare la donna che silenziosamente gli dichiara il suo amore. Alla scadenza del permesso, si rifiuta di rientrare in galera e sceglie la via della fuga sulle montagne. Il carcere, in Yol (termine che in turco significa 'strada', ma anche, in senso figurato, il 'cammino della vita'), non è solo il luogo di provenienza dei cinque viaggiatori, ma è anche metafora applicabile all'intera società turca. Non soltanto perché ricorrono nel film riferimenti a violenze perpetrate dalla polizia e dall'esercito sulla popolazione civile; ma anche perché a 'incarcerare' i personaggi sono le rigide prescrizioni e i crudeli codici d'onore di un'antica cultura patriarcale. Rispetto a questo complesso sistema repressivo politico e culturale, Yol coglie svariate reazioni nei protagonisti, così come nelle figure secondarie: dall'inerzia rassegnata con la quale una donna nel villaggio curdo continua ad allattare al seno un bambino, mentre si svolge sotto i suoi occhi un'azione di guerriglia, al sorriso affascinato e masochistico con il quale la fidanzata di Mevliit apprende da lui i dettami annichilenti della sua futura vita coniugale; dal dissidio intimo di Seyit, che sarà perseguitato dal rimorso dopo la morte di sua moglie, alla ribellione nei confronti della legge maturata da Omer, che però accetta fatalisticamente gli obblighi coniugali prescritti dalla tradizione. “In certi film, soprattutto in quelli americani, si arriva a un climax di sentimenti e reazioni che crollano con un'azione risolutiva. Io voglio invece che gli spettatori accumulino queste sensazioni durante tutto il film e si ritrovino per la strada, fuori dal cinema, pieni di angoscia, carichi dei sentimenti e della disperazione dei personaggi. Voglio che vadano a casa e che, da questo momento, vedano la vita e il mondo attraverso questa esperienza” (Yilmaz Guney). Il processo catartico o liberatorio è posto dall'autore al di fuori del cinema, nella lotta politica, della quale l'arte può solo agevolare le condizioni, plasmando le emozioni e la coscienza del popolo. Il film fu concepito da Gilney all'interno di un carcere turco, dove scontava diciannove anni di reclusione con l'accusa di aver ucciso un giudice (totalizzò complessivamente condanne per circa cento anni di carcere, soprattutto per i suoi scritti e i suoi libri, considerati filo-comunisti).
Senza femminismo niente anarchismo – Emma Goldman
Non è piacevole sperimentare atteggiamenti e comportamenti sessisti da parte dei compagni. La frustrazione e la delusione che ne conseguono giustificano, da parte delle donne, la tendenza ad uscire dai gruppi in cui vi sono anche uomini, per formare organizzazioni femminili separatiste. Tuttavia la soluzione separatista - che offre un'alternativa immediata e appetibile all'ira e alla frustrazione - è un errore, sia dal punto di vista teorico che sul piano pratico. Una politica settaria, fondata sulla divisione tra i sessi o su qualunque altro elemento di separazione, può diventare facilmente paranoica, e come tale può essere relegata ai margini, privata di ogni rilevanza. Non posso fare a meno di concordare con il punto di vista espresso dal "Manifesto anarco-femminista" dell'ANORG (Federazione anarchica della Norvegia), nel quale si legge tra l'altro: "Un anarchismo serio dovrebbe essere femminista, altrimenti sarebbe soltanto un mezzo anarchismo patriarcale, non un anarchismo vero. Garantire la presenza del fattore femminista dell'anarchismo è compito delle anarco-femministe. Senza femminismo non ci sarà anarchismo". Per parte mia aggiungerò che non ci sarà mai un vero, efficace femminismo senza anarchismo. Emma Goldman sarebbe d'accordo con me, perché era convinta che il femminismo non potesse sviluppare una teoria e una prassi libertarie isolandosi dalla più vasta lotta per la liberazione dell'umanità. Nella biografia "Emma Goldman: An Intimate Life" Alice Wexler riporta queste sue parole: "Ho polemizzato con le femministe... perché la maggior parte di loro considerava la schiavitù della donna come qualcosa di separato dal resto dell'umanità". La Goldman era convinta che "nonostante le linee di confine artificiali tracciate tra i diritti delle donne e quelli degli uomini... esiste un punto nel quale queste differenziazioni possono incontrarsi e fondersi in un insieme perfetto". Il pericolo che si annida in un femminismo inteso come politica orientata esclusivamente all'emancipazione della donna è, ovviamente, il riformismo politico e sociale. Come la Goldman stessa sottolineò, nel criticare il movimento suffragista, la conquista del voto da parte delle donne non rappresenta una minaccia per il sistema dominante - semplicemente, lo rafforza. La liberazione presuppone una trasformazione radicale dell'intero ordine politico, economico e sociale. Se questo obiettivo ultimo pare irraggiungibile, dobbiamo ugualmente pensare e agire secondo questo ideale necessariamente utopico. Si tratta di vivere creativamente, di sviluppare fantasie creative, fantasie necessarie, non avulse dall'area delle possibilità razionali. Secondo Alice Wexler, la Goldman "diede una dimensione femminista all'anarchismo e una dimensione libertaria al concetto dell'emancipazione della donna". Si adoperò perché gli anarchici riconoscessero al sesso la sua natura politica, ovvero comprendessero che una completa libertà sessuale e riproduttiva è requisito essenziale dell'emancipazione femminile. Questo concetto non sarà mai ribadito abbastanza nelle discussioni sul femminismo e sull'anarchismo, perché un'analisi più approfondita della politica della sessualità rivela l'intricata complessità dell'esperienza umana,- in termini di pensiero, sensazione e azione. Ora dobbiamo pensare sensitivamente. Ciò ci costringe a ripensare la natura della rivoluzione come processo, come prassi mutativa del pensiero, del sentimento e dell'attività sociale collettiva.