Lo spazio urbano va riducendosi a pura facciata, ora il motore ideologico della trasformazione urbana è l’immagine che si promuove – il marchio. Orientato sulle direttrici dell’interesse privato, l’agglomerato post-moderno si rivolge all’esterno per attrarre quanti più investimenti, e turisti, possibile. Deve impressionare il visitatore ignaro e fare colpo sugli uomini d’affari con un’immagine appariscente. Per questo l’équipe dirigente intraprende, in modo congiunto con le imprese private e i pezzi grossi della politica, operazioni di valorizzazione del patrimonio culturale e monumentale, creando una scenografia roboante (museificazione dei centri storici, promozioni immobiliari esclusive, strade commerciali pacchiane, complessi monumentali “d’autore”, edifici singolari, zone verdi desertificate), e trasformando in festival la vita quotidiana con eventi promozionali, “performances”, congressi di ogni genere e fiere commerciali. In questo modo s’imprime rapidamente un marchio su uno spazio segmentato e freddo, asettico, trasparente, disseminato di frammenti fittizi, paesaggi simulati e architettura petulante, come fosse un parco tematico o uno studio cinematografico. Uno spazio-franchigia privo di tensioni, disciplinato, profilattico, inumano, la cui sostanza è una miscela di falsità, voracità e cattivo gusto. Un arredo volgare che impedisce la liberazione di ciò che è latente nella vita quotidiana, in cui la servitù è volontaria e il ballo della rassegnazione conta un pubblico assiduo e numeroso. Lo scenario ideale per chi trae i benefici della globalizzazione. L’isolamento sociale e spaziale che deriva da un urbanesimo adattato alla necessità di crescita dell’economia coincide con il progresso della digitalizzazione, vale a dire al progresso stesso. Non c’era bisogno di una crisi sanitaria per impoverire ancor più le relazioni sociali, dato che il confinamento non è stato mai una novità. Strumenti di separazione come l’automobile, la televisione e il computer ai loro tempi, o i tablet e i telefonini oggi, hanno un ruolo importante nella distruzione dei vincoli affettivi e dei costumi sociali, per non parlare di ciò che provocano in quanto a meccanizzazione dei comportamenti delle persone. Il ricavo di plusvalore prospera tanto sull’adattamento della natura umana alle esigenze tecnologiche e alla degradazione ambientale, quanto sulla scomparsa della comunicazione diretta, delle radici locali e della socialità comune. Eppure, l’utopia barbara del tardo capitalismo non ha ancora trionfato. Molte contraddizioni la rendono irrealizzabile e la conducono all’auto-annichilimento. Non ha futuro. Ad ogni modo, i contro-progetti di resistenza dovranno sgombrare e ripulire molto terreno affinché l’urbanesimo della sottomissione, della robotizzazione e della nevrosi vada irrimediabilmente in rovina e si apra la strada a uno spazio di libertà, autonomia e rivolta. Il fatto che i rivoltosi di oggi si preoccupino di abbozzare un modello di città conseguente, contribuirà molto più di quanto si possa pensare a configurare questo spazio. (Miguel Amorós)
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