I graffiti esistono da sempre, qualcuno stenta a definirli un fenomeno antropologico; fanno parte di una cultura che ha saputo fondare i propri principi su poche cose ben distinte. Primo tra tutti il mezzo: la bomboletta. Secondo: l’ambiente; i graffiti e le scritte più in generale si sviluppano in contesti urbani che offrono muri, superfici, mezzi e occhi i quali, volenti o nolenti, passata la notte dovranno fare i conti con il segno che qualcuno ha deciso di lasciare lì. Terzo: il coraggio. Pare poca cosa a chi non si è mai trovato a correre col batticuore alla luce dei lampeggianti in fondo alla via. Pare poca cosa al cittadino che nemmeno se le immagina certe dinamiche, perché bisogna essere sinceri, per prendere in mano una bomboletta e fare propria una superficie serve del coraggio. Non è soltanto una questione di trasgressione e di possibili problemi con la legge; scrivere sul muro di una città e farlo in maniera spontanea è una provocazione allo spazio pubblico e uno sbeffeggiamento del perbenismo dilagante. Per ultimo il concetto di identità, capace di superare se stessa, di celarsi dietro all’anonimato o uno pseudonimo in un mondo che ci vuole etichettati, schedati e catalogati secondo tabelle e differenziazioni. Le ragioni di queste azioni, note come “vandalismo”, sono svariate e non sentiamo il bisogno di distinguerle in classi più o meno nobili. Ciò che ci accomuna nello svolgere questo ragionamento è il disprezzo per una società cieca che storce il naso davanti a del colore o ad una scritta, ma che non proferisce parola su ciò che la riguarda fatti alcuni passi lontano dal muro di casa propria. Il solito discorso del proprio cortile e dei propri polli, il solito “fallo sul muro di casa tua”. E invece no, farlo è impossessarsi dello “spazio pubblico” e privato, dilagare ed espandersi, riprendersi lembi di agibilità e tirarli con tutte le proprie forze, opporsi alla cementificazione forzata di una società che pensa solo ad evolvere e che tende ad escludere. Da sempre i muri parlano per chi non ha voce sufficientemente alta in un mondo di prepotenti. A tal proposito il vandalismo diventa un vero e proprio stile di vita di generazioni disilluse, che vogliono riprendersi spazio, pronte a rimettere in discussione il concetto di proprietà privata. Così una scritta su un muro diventa una cosa di tutti, un ragionamento comune per chi ne accetta e condivide le pratiche. Un’occasione di esprimersi per chi ha il coraggio di sentirsi vivo e vuole tornare ad essere padrone delle proprie scelte, delle proprie azioni. Per la società e l’autorità il vandalismo diminuisce il valore degli immobili, disturba, dà fastidio perché interrompe il silenzio assordante e la monotonia nella quale stiamo scivolando. I muri puliti sono sinonimo di civiltà, di buona cittadinanza e convivenza. Sono sinonimo di uno stile di vita remissivo e alienato che ci porta a scegliere passivamente, a dividerci e frammentarci fino a farci restare soli. Il vandalismo e il teppismo si oppongono da sempre ad una logica fredda che ci vuole in fila e pazienti, fornendo un modo concreto di stare insieme e del poter fare affidamento sui propri fratelli e sulle proprie sorelle, in ogni situazione, senza farsi intimorire.
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