Il sistema della proprietà è tanto assurdo che porta la gente a rivendicare la propria morte come un loro bene - l'appropriazione privata della morte. Il guasto mentale dell'appropriazione è tale che porta all'investimento immobiliare della morte, non soltanto che nella preoccupazione di quella terza residenza che è diventato il loculo o la tomba (molti acquistano allo stesso tempo una casa in campagna e una concessione nel cimitero del villaggio), ma anche nella rivendicazione d'una qualità della morte. Una morte personalizzate, design-ata, confortevole, una morte naturale: diritto inalienabile che è diventato la forma perfetta del diritto borghese individuale. L'immortalità non è mai d'altronde che la proiezione nell'infinito di questo diritto naturale e personale - appropriazione della sopravvivenza e dell'eternità del soggetto - inalienabile nel suo corpo inalienabile nella sua morte. Quale disperazione nasconde questa rivendicazione assurda, analoga a quella che alimenta il nostro delirio di accumulazione di oggetti e di segni, al collezionismo maniacale del nostro universo privato: bisogna ancora che la morte ridiventi l'ultimo oggetto della collezione e, invece di attraversare questa inerzia come unico evento possibile, rientri essa stessa nel gioco dell'accumulazione e dell'amministrazione delle cose.
Contro questa distorsione che il soggetto imprime alla propria perdita, c'è liberazione esclusivamente nella morte violenta, inattesa, che restituisce la possibilità di sfuggire al controllo nevrotico del soggetto.
Ovunque emerge una resistenza ostinata, feroce, a questo principio di accumulazione di produzione e di conservazione del soggetto, in cui esso può leggere la propria morte programmata. Ovunque si gioca la morte contro la morte. In un sistema che mira a vivere e a capitalizzare la vita, la pulsione di morte è l'unica alternativa. In un universo regolato minuziosamente, un universo della morte realizzata, l'unica tentazione è quella di normalizzare tutto mediante la distruzione.
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