Le controculture hanno origine negli spazi liberati – quelle “zone da difendere” – durante il confronto con gli interessi dominanti. Emergono da altri modi di vivere emergenti che sfuggono al consumo di massa, quindi alla sfera del mercato. Attualmente solo la difesa del territorio è in grado di illuminarle, perché il conflitto territoriale ha bisogno di essere sostenuto da realizzazioni in margine al capitalismo e queste avvengono con minori difficoltà e migliori risultati in campagna. Gli ambienti urbani sono troppo artificializzati, atomizzati e tecno-dipendenti. Sono terreno ostile alla coscienza. Ciò non significa che le lotte per i salari, le pensioni, l’alloggio, i trasporti gratuiti o i diritti delle minoranze non siano importanti. Semplicemente, il territorio è l’anello più problematico della catena capitalista e con la maggiore capacità unificante. È diventato un elemento strategico decisivo, sia per i suoi sfruttatori sia per i suoi difensori. Tuttavia, in linea di principio, non si tratta tanto di condurre cruente battaglie contro le forze dell’ordine quanto di dimostrare che un altro modo di produrre e gestire, più giusto, più semplice e più egualitario, è perfettamente fattibile. Per raggiungere quest’obiettivo, dobbiamo ripopolare le aree lontane dal capitale da cui promuovere grandi mobilitazioni contro la distruzione dei terreni agricoli o qualsiasi altra nocività. Non partire da formule miracolose o da volontarismi puerili, ma da esperienze comunitarie autonome e coordinate che rompano con la logica della specializzazione e del profitto, per ricostruire una rete di rapporti diretti consuetudinari sufficientemente solida da sostenere un'offensiva. Arrivati a questo punto, i gruppi urbani possono essere ausiliari molto efficaci. I tempi non scorrono uguali ovunque. Come qualcuno ha giustamente affermato, la storia non è omogenea, numerosi fattori s’insinuano nei suoi interstizi e ne condizionano in modi diversi il divenire. Oggi, nelle nostre coordinate continentali, le lotte per la dignità si combattono soprattutto contro la valanga d’impianti di energie rinnovabili industriali. Altrove, la resistenza alla mercantilizzazione si esercita soprattutto contro la costruzione d’insediamenti residenziali, complessi turistici, autostrade e aeroporti. In tutti loro il fronte comune è contro l’agricoltura industriale. In vaste aree che stanno per essere devastate dall’estrattivismo capitalista, si tratta piuttosto di non entrare che di uscire dal capitalismo, di affrontare – anche con le armi alla mano – le intrusioni vandaliche degli scagnozzi dell’economia a tutti i livelli, rafforzando i legami di una società contadina autogovernata, come accade in varie parti dell’America Latina o del Kurdistan. Il cammino della storia – delle storie – è stato finora un susseguirsi di disastri. La rivoluzione non consisterà mai in un salto di qualità della produttività grazie ad un uso “democratico” di tecniche che sono essenzialmente totalitarie. Non si baserà mai su un’accelerazione pacifica dei cambiamenti economici guidata dallo Stato da guidatori esperti e ben intenzionati, ma piuttosto su un loro brusco arresto, opera anonima di un soggetto collettivo oppresso.
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