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giovedì 28 febbraio 2019

Le rivolte e le lotte nelle carceri italiane nel biennio 1971-72 (Capitolo IV)

20 dicembre: MILANO, SAN VITTORE. Il fascista Casagrande e camerati sono severamente pestati dai compagni del secondo raggio e vengono trasferiti “precauzionalmente” al carcere di Rho.
25-26 dicembre: MILANO, SAN VITTORE. Sciopero della fame al secondo raggio per chiedere l’abolizione del codice Rocco e la liberazione dei detenuti incarcerati per consumo di droga.
14 gennaio 1972: MILANO, SAN VITTORE. I detenuti del secondo raggio rifiutano i colloqui con la commissione di psichiatri e psicologi così come sono stati organizzati dal direttore C., e chiedono che siano ammessi ad assistervi dei compagni esterni, scelti dai detenuti stessi.
20 gennaio: MILANO, SAN VITTORE. Trecento detenuti del terzo raggio attuano uno sciopero della fame di ventiquattro ore per protesta contro il vigente regolamento carcerario fascista.
20 gennaio: NAPOLI, POGGIOREALE. Tutti i detenuti del padiglione Genova si sono rifiutati di mangiare. Le rivendicazioni sono: la riforma dei codici e l’amnistia. A Poggioreale su 1625 detenuti (presenti al 24 gennaio), 817 sono in attesa di giudizio, 522 aspettano l’appello, 138 la cassazione, solo 130 sono definitivi. Cioè, se non esistesse il carcere preventivo, Poggioreale sarebbe vuoto. Invece è pieno come un uovo (anche venti detenuti per ccamera, senza gabinetto, di 5 metri per 4).
23 gennaio: ALGHERO, CARCERE MANDAMENTALE. I detenuti, al termine dell’ora d’aria si rifiutano di farsi chiudere in cella, salgono sul tetto del carcere, al centro di Alghero, gridando slogan contro agenti di custodia, poliziotti, e chiedendo a gran voce la riforma carceraria e l’abolizione del codice Rocco.
23 gennaio: MODICA (RAGUSA), CARCERI DI PIANO DEL GESÙ. I detenuti minorenni incendiano materassi e coperte delle loro celle per protestare contro la carcerazione preventiva dei minori.
27 gennaio: SPOLETO. Protesta contro la carcerazione preventiva.
2 febbraio: MILANO, SAN VITTORE. Sciopero della fame articolato nei vari raggi per ottenere dal ministero il diritto di riunione e assemblea, e che a queste assemblee possano partecipare giornalisti “esterni”. Nello stesso giorno la questura proibisce al corteo della Statale di recarsi a San Vittore, sostenendo che la “situazione interna al carcere è estremamente tesa ed un sostegno esterno la renderebbe esplosiva!"
3 febbraio: ANCONA. Nella notte tra il 3 e 4 febbraio, mentre a causa delle scosse di terremoto la città si va svuotando rapidamente, e mentre anche le guardie carcerarie si riversano sulla piazza antistante il carcere, i detenuti vengono lasciati chiusi a chiave nelle celle con la prospettiva di fare la fine del topo! Malgrado le proteste dei detenuti che si danno alla distruzione di quanto c’è nelle celle, che gettano all’esterno del carcere stracci incendiati, che cercano di sfondare le porte delle celle, solo nel tardo pomeriggio una parte di loro viene trasferita. Per gli altri, niente, perché in altre carceri non c’è più posto!
9 febbraio: CATANIA, CARCERE PER MINORI. I detenuti minorenni si ammutinano per protesta contro l’infame condanna a due loro compagni: due anni e due mesi di reclusione per tentato furto. In trenta si arrampicano sui tetti, reclamando a gran voce l’amnistia che Leone non vuole concedere. La polizia e i carabinieri subito circondano l’edificio, ma sono accolti da nutri te scariche di tegole e pezzi di cemento rotti con piccone. È la quarta rivolta durissima di questi giovani reclusi, in meno di un anno, oltre a decine di altre proteste.
12-13 marzo: due giorni di lotta nelle carceri di NOTO. I detenuti nel carcere di Noto si rifiutano di entrare nelle celle dopo le due ore d’aria. Chiedono: abolizione dell’isolamento diurno, libertà di riunione dentro il carcere, amnistia, libertà di portare le loro donne in cella, la riforma carceraria. Il giorno dopo i dieci detenuti più attivi che hanno organizzato la lotta sono trasferiti nelle carceri di Siracusa, Augusta, Caltanissetta e Trapani.

SAN DIEGO SERENADE di Tom Waits

Non avevo mai visto la mattina finché non sono rimasto alzato tutta la notte
Non avevo mai visto la luce del sole finché non hai spento la luce
Non avevo mai visto la mia città finché non sono stato via troppo a lungo
Non avevo mai ascoltato la melodia finché non mi è servita una canzone
Non avevo mai visto lo spartitraffico fino al momento in cui ti stavo lasciando alle spalle
Non avevo mai saputo di aver bisogno di te finché non sono rimasto invischiato in una situazione difficile
Non avevo mai detto “ti amo” finché non ti ho maledetto invano
Non avevo mai provato sentimenti profondi finché non sono quasi impazzito.
Non avevo mai visto la East Coast finché non mi sono trasferito a ovest
Non avevo mai visto la luce della luna finché non ha brillato sul tuo seno
Non avevo mai visto il tuo cuore finché qualcuno ha cercato di rubarlo, 
ha cercato di rubarlo
Non avevo mai visto le tue lacrime finché non sono scese sul tuo viso.


L'ultimo discorso del sub-comandante Marcos - parte seconda

...Però vi stavo dicendo che ci scontrammo con questa domanda e questo dilemma.
E scegliemmo.
Invece di dedicarci a formare guerriglieri, soldati e squadroni, preparammo promotori di educazione, di salute, e si costruirono le basi della nostra autonomia che oggi meraviglia al mondo.
Invece di costruire caserme, migliorare il nostro armamento, costruire muri e trincee, si costruirono scuole, si costruirono ospedali e centri di salute, migliorammo le nostre condizioni di vita.
Invece di lottare per occupare un posto nel Partenone delle morti individualizzate dal basso, scegliemmo di costruire la vita.
Tutto questo nel mezzo di una guerra che anche se sorda non era meno letale. Perché, compagni, una cosa è gridare “non siete soli” e un'altra è affrontare solo con il corpo a una colonna di blindati di truppe federali, come successe nella zona Los Altos de Chiapas, e se hai fortuna e qualcuno se ne accorge, e se hai ancora più fortuna e quello che se ne accorge si indegna, e ancora un po' più di fortuna e quello che si indegna fa qualcosa. Nel frattempo, i carri armati sono fermati dalle donne zapatiste, e in mancanza di armeria fu a suon di offese e di pietre che il serpente di acciaio dovette tornarsene indietro. E nella zona Norte de Chiapas, soffrire la nascita e lo sviluppo de sicari armati dei latifondisti, riciclati allora come paramilitari; e nella zona Tzotz Choj le aggressioni continue di organizzazioni contadine che di “indipendenti” a volte non hanno nemmeno il nome; e nella zona della Selva Tzeltal la combinazione di paramilitari e contras. -E una cosa è gridare “tutti siamo marcos” o “non tutti siamo marcos”, a seconda del caso, e un'altra è la persecuzione con tutta la macchina di guerra, l'invasione dei villaggi, le perlustrazioni delle montagne, l'uso di cani addestrati, le pale degli elicotteri artigliati scompigliando i rami degli alberi di ceiba, il “vivo o morto” che nacque nei primi giorni del gennaio del 1994 e raggiunse il suo livello più isterico nel 1995 e il resto del sessennio di colui che attualmente è impiegato di una multinazionale, e che questa zona Selva Fronteriza soffrì dal 1995 e alla quale si somma poi la stessa sequenza di aggressioni da parte di organizzazioni contadine, uso dei paramilitari, militarizzazione, attacchi.
Se c'è un qualche mito in tutto questo non è il passamontagna, ma la menzogna che ripetono da quei giorni, persino ripresa da persone con alti studi, per cui la guerra contro gli zapatisti sarebbe durata solo 12 giorni.
Non farò un racconto dettagliato. Qualcuno con un poco di spirito critico e di serietà può ricostruire la storia, e fare delle somme e sottrazioni per fare la conta, e dire se furono più i reporter che i poliziotti e i soldati; se furono più gli inganni che le minacce e gli insulti, se il prezzo che si poneva era per vedere il passamontagna o per catturarlo “vivo o morto”.In queste condizioni, alcune volte solo con le nostre forze ed altre con il sostegno generoso e incondizionato di gente buona di tutto il mondo, si avanzò nella costruzione ancora in-conclusa, è vero, però già definita di ciò che siamo. Non è allora una frase, fortunata o sfortunata, secondo che la si guardi dall'alto o dal basso, quella di “siamo qui i morti di sempre, morendo di nuovo, però adesso per vivere”. E' la realtà.
E quasi 20 anni dopo...
Il 21 di dicembre del 2012, quando la politica e l'esoterismo coincidevano, come altre volte, nel predicare catastrofi che sempre sono per quelli di sempre, quelli in basso, ripetemmo il colpo di mano del 1 gennaio del 94 e, senza sparare un solo colpo, senza armi, solo con il nostro silenzio, umiliammo di nuovo l'orgoglio delle città culla e nido del razzismo e del disprezzo. Se il primo di gennaio 1994, migliaia di uomini e donne senza volto attaccarono e fecero arrendere le guarnigioni che proteggevano le città, il 21 di dicembre del 2012 furono decine di migliaia quelle che occuparono senza pronunciare parole gli edifici dai quali si celebra la nostra sparizione. Il solo fatto inappellabile che l'EZLN non solo non si era indebolito, meno ancora sparito, ma che era cresciuto quantitativamente e qualitativamente sarebbe bastato perché qualsiasi mente intelligente si fosse resa conto che, in questi 20 anni, qualcosa era cambiato all'interno dell'EZLN e delle comunità.
Forse più di uno crede che abbiamo sbagliato a scegliere, che un esercito che non può e non deve impegnarsi in pace
Per molte ragioni certo, però la principale era ed è perché in questa forma finiremo per scomparire.
Forse è vero. Forse ci siamo sbagliati a coltivare la vita invece di elogiare la morte.
Ma noi prendemmo la decisione non ascoltando quelli da fuori. Non a coloro che sempre chiedono la lotta a morte, finché i morti li mettano altri.
Prendemmo la decisione guardandoci e ascoltandoci, essendo il Votán, lo spirito guardiano, collettivo che siamo.
Scegliemmo la rivolta, cioè la vita.
Questo non vuol dire che non sapessimo che la guerra dall'alto  avrebbe cercato e cerca di imporre di nuovo il dominio sopra di noi.
Sapevamo e sappiamo che una ed un altra volta dovremo difendere ciò che siamo e come siamo.
Sapevamo e sappiamo che ci dovrà essere la morte, perché ci sia la vita.
Sapevamo e sappiamo che per vivere, moriamo.

giovedì 21 febbraio 2019

Le rivolte e le lotte nelle carceri italiane nel biennio 1971-72 (Capitolo III)

4 agosto: LA SPEZIA. Protesta di centosessantaquattro detenuti. Motivi: disagio derivante da sovraffollamento, caldo, riforma dei codici, migliore trattamento. Metodo di lotta: asserragliati per tre ore nel salone T.V., battono con forza sulle sbarre delle finestre per richiamare l’attenzione dei passanti. Il sostituto procuratore della repubblica, dottor B., ha preso atto delle richieste; i detenuti annunciano uno sciopero della fame in massa in caso non si manterranno gli accordi.
8 agosto: TRAPANI, CARCERE GIUDIZIARIO. Nella notte trenta detenuti si impadroniscono del carcere e incendiano tutto, fuorché i muri e le sbarre! Dopo una durissima repressione, durata tutto il giorno, sono trasferiti in altre carceri siciliane.
12 agosto: PISA, CARCERE GIUDIZIARIO. Cinquanta detenuti in “transito” si rivoltano, danno fuoco ai pagliericci per protesta, demoliscono alcune tramezze divisorie. Motivo: i continui trasferimenti lontano dai luoghi di provenienza, e quindi dalle famiglie, avvocati, eccetera.
18 agosto: PAVIA, CARCERE GIUDIZIARIO. Quattro giovani, accusati di furto, si barricano in cella per molte ore, per protesta contro la carcerazione preventiva. Anche tre giorni prima altri tre si sono barricati in cella per gli stessi motivi.
14 settembre: FIRENZE, LE MURATE. Proteste, scontri tra guardie e detenuti.
17 settembre: BRESCIA, CARCERE DI CANTON MOMBELLO. Tra le venti e trenta e le otto, duecento detenuti “riformano” in modo concreto il carcere, sfasciando tutto quello che puzza di repressione e di fascismo: uffici, infissi, biblioteca, cappella, eccetera. In venti riescono a salire sui tetti, da dove gridano slogan contro la P.S., i secondini, la magistratura, e cercano di spiegare ai passanti le ragioni della rivolta. Dalle centinaia di C.C. e di P.S. che circondano l’edificio, all’ordine del questore M., partono grappoli di lacrimogeni e numerose raffiche di mitra. Due detenuti sono colpiti, di cui uno, M. P., trentacinque anni, di Broni, che la stampa dice ferito “misteriosamente” da un proiettile vagante, è ricoverato a Milano in gravissime condizioni. Nel pomeriggio sessanta detenuti sono trasferiti in altre carceri, un gruppo nelle famigerate galere della Sardegna, dove normalmente, dopo ogni rivolta, i presunti “capi” vengono inviati per essere massacrati nel fisico e nel morale.
7 ottobre: BARI, CARCERE PER MINORI. Rivolta e fuga di dieci reclusi.
8-13 dicembre: MILANO, SAN VITTORE. Mille detenuti su milleduecento proclamano lo stato di agitazione alle “lavorazioni”, si rifiutano di obbedire agli orari del carcere, prolungando a piacere la “passeggiata”, si riuniscono in assemblee di raggio, attuano uno sciopero della fame di un giorno, presentano e ottengono diverse richieste, riguardanti sia le condizioni materiali sia la normativa interna (colloqui, abolizione della censura sulla stampa).
15 dicembre: REGGIO CALABRIA, CARCERE DI CINQUEFRONDI. Protesta di cinque ore di ventun detenuti contro i continui trasferimenti. L’occasione è data dal trasferimento di tre detenuti in carceri lontane, dove verrebbe a mancare l’assistenza legale e dei familiari. I detenuti ammassano letti, coperte e tutte le suppellettili contro il cancello all’atrio del carcere. I trasferimenti rientrano, con l’impegno che non ce ne saranno altri preso dalla procura della repubblica di Palmi.
15 dicembre: CALTANISSETTA, CARCERE MINORILE DI SAN CATALDO. Otto ragazzi ingoiano per protesta chiodi, pezzi di vetro, viti e piastrine. Si tratta di un gruppo di “rivoltosi” trasferiti dal minorile di Catania, dopo le ripetute rivolte avvenute in quel carcere. Tra l’altro a Catania era già stata attuata una protesta analoga: settanta ragazzi avevano ingoiato chiodi e pezzi di ferro per richiamare l’attenzione sulle condizioni bestiali in cui erano costretti a vivere. Le carceri per minori sono tremende, e quello che è gravissimo, ma che pochi conoscono, è che l’85 per cento dei reclusi sono figli di disoccupati, o orfani, che non trovano posto presso enti assistenziali (buoni questi!), oppure minorati fisici, “subnormali”, come Fortunato Patti, ragazzo assassinato l’11 dicembre in una cella di rigore dell’istituto di Pedara (Catania) e occultato in un bosco vicino. 

AGUGGINI ETTORE anarchico

Ettore nasce a Milano il 23 marzo 1902. Rimasto orfano della madre a sei anni, frequenta le scuole elementari fino alla quinta classe. Dopo le scuole si impiega come apprendista in diversi lavori fino a quando entra come operaio in uno stabilimento metalmeccanico. In fabbrica matura la sua scelta leggendo fra l’altro L’Unico di Stirner di aderire agli ideali anarchici. Nel Primo dopoguerra fa parte a Milano di un gruppo anarchico individualista e stringe una forte amicizia con Giuseppe Mariani e Giuseppe Boldrini. Nell’ondata di attentati di protesta che gli anarchici fanno scoppiare a Milano nel 1920-21. Aguggini, partecipa alle azioni sia contro la forza pubblica durante le agitazioni operaie, sia contro i simboli del “potere borghese” come il ristorante CovaCavour, dove era ospite la missione inglese per il congresso della Società delle Nazioni e infine il teatro Diana. Quest’ultimo attentato ideato dal Aguggini insieme con Mariani e Boldrini, per protestare contro la prolungata detenzione di Errico Malatesta, Armando Borghi e Corrado Quaglino in carcere da cinque mesi senza ancora essere stati rinviati a giudizio. Come loro stessi asseriscono durante il processo, è la notizia dello sciopero della fame dichiarato in carcere da Malatesta, Borghi e gli altri compagni a spingere il gruppo a compiere un gesto eclatante contro uno dei principali responsabili della repressione anti-anarchica, il questore Gasti. La decisione di attentare al teatro-albergo Diana, comunque, era stata presa all’ultimo momento, la prima intenzione era stata quella di far saltare in aria la Questura centrale di piazza San Fedele. che non poté essere attuato per sopravvenute difficoltà d’esecuzione. L’esplosione causa la morte di 21 persone e 80 feriti. Nel breve volgere di poco tempo bande armate fasciste distrussero sia la sede di Umanità Nova sia quella dell’U.S.I., tentando poi l’assalto alla nuova sede dell’Avanti! Subito dopo ebbe inizio la sistematica “caccia all’anarchico” da parte della polizia: decine ne furono fermati, minacciati, incarcerati, finché si arrivò all’individuazione del terzetto responsabile della strage. Diciassette altri anarchici, assolutamente estranei al fatto, furono accomunati dalla polizia a Mariani, Boldrini ed Aguggini. 
Aguggini fugge prima a Lodi, poi a Piacenza, San Marino e infine Ancona dove viene arrestato. Condannato a vent’anni per l’attentato al Cova, viene poi processato per gli attentati al Cavour e al Diana. Ettore ammette di essere responsabile, e, dopo una dichiarazione di fede anarchica si dichiara addolorato per la strage provocata. Viene condannato a trent’anni. Oltre alle tre condanne  per i tre autori della strage, decine di anni di galera vennero inflitti agli innocenti cinicamente travolti dalle manovre congiunte della polizia e della magistratura.
Aguggini, sconta la pena in varie carceri, da quello di San Vittore di Milano a Oneglia fino al penitenziario di Alghero dove muore per le sofferenze patite il 3 marzo 1929 all’età di 27 anni.  

L'ultimo discorso del sub-comandante Marcos - parte prima -

Compagna, compagno:  Buona notte, sera, giorno in qualsiasi sia la vostra geografia, il vostro tempo e il vostro modo.
Buona alba.
Vorrei chiedere alle compagne, e compagni che vengono da fuori, in particolare ai mezzi di informazione indipendenti, compagni, la vostra pazienza, tolleranza e comprensione per ciò che dirò, perché queste saranno le mie ultime parole in pubblico prima di cessare di esistere.
Mi dirigo a voi e a coloro che attraverso di voi ci ascoltano e ci guardano. Forse all'inizio, o nel trascorso di queste parole crescerà nel vostro cuore la sensazione che qualcosa è fuori luogo, che qualcosa non quadra, come se stessero mancando uno o vari pezzi per dare senso all'enigma che vi si mostrerà. Forse poi, giorni, settimane, mesi, anni, decadi dopo si capirà quello che adesso diciamo.
É un bene che sarà attraverso i mezzi di informazione liberi, alternativi, indipendenti, che questo arcipelago di dolori, rabbie e lotta dignitosa con cui ci chiamiamo.
Benvenute e benvenuti a la realtà zapatista.
Quando irrompemmo e interrompemmo nel 1994 con sangue e fuoco, non iniziava la guerra per noi, le zapatiste e gli zapatisti. La guerra dall'alto, con la morte e la distruzione, la spoliazione e l'umiliazione, lo sfruttamento e il silenzio imposto al vinto, la stavamo subendo da dei secoli precedenti. Ciò che per noi inizia nel 1994 è uno dei molti momenti della guerra di quelli in basso contro quelli in alto, contro il loro mondo. Quella guerra di resistenza che si combatte quotidianamente nelle strade di qualsiasi angolo dei cinque continenti, nei campi e nelle montagne.
Era ed è la nostra come quella di molte e molti del basso una guerra per l'umanità e contro il neoliberismo. 
Contro la morte pretendiamo la vita. 
Contro il silenzio esigiamo la parola e il rispetto.
Contro l'oblio, la memoria.
Contro l'umiliazione e il disprezzo, la dignità.
Contro l'oppressione, la ribellione.
Contro la schiavitù, la libertà.
Contro l'imposizione, la democrazia.
Contro il crimine. la giustizia.
Chi, con un po' di umanità nelle vene potrebbe o può mettere in discussione queste richieste? E allora molti ci ascoltarono.
La guerra che abbiamo iniziato ci ha dato il privilegio di arrivare ad orecchi e cuori attenti e generosi e a geografie vicine e lontane.
Mancava quel che mancava e manca quel che manca però raggiungemmo allora lo sguardo dell'altro, il suo ascolto e il suo cuore.
Dunque sentimmo la necessità di rispondere ad una domanda decisiva:
Cosa viene dopo?
Nei tenebrose ipotesi della vigilia non entrava la possibilità di porci alcuna domanda. Così che questa domanda ci portò ad altre: Preparare ai prossimi a cui tocca la strada della morte?
Formare ulteriori e migliori soldati? 
Investire sforzi nel migliorare la nostra malconcia macchina per la guerra?
Simulare dialoghi e disponibilità alla pace, però continuare a prepararci per nuovi attacchi?
Ammazzare o morire come unico destino?
O dovevamo ricostruire la strada della vita, questa che avevano rotto e continuano a rompere quelli in alto?
La strada non solo dei popoli indigeni, ma anche dei lavoratori, studenti, maestri, giovani, contadini, oltre a tutte quelle differenze che si celebrano in alto mentre in basso si perseguono e si puniscono.
Dovevamo inserire il nostro sangue nella strada che altri dirigono verso il Potere o dovevamo voltare il cuore e lo sguardo verso quelli che siamo e a quelli che sono come noi, cioè i popoli originari, guardiani della terra e della memoria?
Nessuno lo ascoltò allora, però nei primi balbettii che furono le nostre parole avvertimmo che il nostro dilemma non era tra negoziare o combattere, ma tra morire o vivere.
Chi avesse avvertito allora che questo iniziale dilemma non era individuale, forse avrebbe capito meglio quello che è successo nella realtà zapatista negli ultimi 20 anni.

giovedì 14 febbraio 2019

Le rivolte e le lotte nelle carceri italiane nel biennio 1971-72 (Capitolo II)

6 maggio: CATANIA, CARCERE PER MINORI E GIOVANI ADULTI. Rivolta.
6 maggio: UDINE. Sciopero della fame. Dura repressione da parte della polizia e trasferimento di parecchi detenuti.
27 giugno: ROMA, REBIBBIA. I detenuti del centro di osservazione, sbandierato dai riformisti come un modello europeo per umanità di trattamento e “recupero” scientifico del recluso, salgono sui tetti per protesta contro il sistema carcerario, stufi di essere considerati cavie da esperimento e studio.
29 giugno: CATANIA. Ottanta minori e cento adulti si ribellano contro la sproporzione della pena e la durezza nei confronti di due minorenni condannati a quattro anni per scippo. La lotta è durissima. Sui tetti spiccano grandi cartelli: “Carcere = campo di concentramento”. Vengono incendiate tutte le suppellettili e distrutto un padiglione. Il carcere viene circondato da militari e polizia, che spara diverse raffiche di mitra sui tetti ad altezza d’uomo. I familiari e i compagni sotto il carcere gridano “Polizia fascista”. Dei fascisti che hanno una sede lì vicino, vengono a provocare i compagni,
gridando “Pena di morte, cianuro!”, ma i familiari li cacciano via. Infine polizia e pompieri riescono ad entrare. Otto detenuti feriti da arma da fuoco (sui tetti) vanno all’ospedale. Moltissimi i trasferimenti.
6 luglio: FORLÌ, CARCERE PER MINORI. Preceduto da due o tre proteste e uno sciopero della fame, scoppia l’ammutinamento dei minori. Su cento partecipano in novantasei, le guardie e il direttore abbandonano l’edificio. Si fa un’assemblea dove si discute del regolamento e delle lavorazioni. Ad esempio, in falegnameria per una paga irrisoria si costruiscono mobili che il famoso mobilificio
Leoni di Meldola vende carissimi. Si decide di non lavorare più. La repressione è molto dura, dodici vengono condannati a venticinque giorni di camera di sicurezza e si sa per certo che Roberto Mander, uno degli anarchici ingiustamente carcerato per la Strage di Stato, che ha partecipato alla rivolta, rischia il manicomio criminale.
9-10 luglio: VENEZIA, SANTA MARIA MAGGIORE.
Nella notte i detenuti scendono in lotta, liberano un braccio, salgono sui tetti malgrado i colpi di fucile sparati dalle guardie. I detenuti presentano le seguenti richieste: abolizione del codice fascista; snellimento del procedimento giudiziario; fine dello sfruttamento del lavoro carcerario e della speculazione sul vitto; fine dei trasferimenti politici ai danni dei compagni più combattivi; fine delle punizioni corporali e delle camere di sicurezza. La mattina dell’11 la polizia entra in forze e dopo duri scontri reprime la lotta. I compagni hanno portato il loro sostegno militante all’esterno del carcere ed hanno propagandato nei quartieri popolari i motivi della lotta.
13 luglio: CATANIA. Malgrado la repressione, nuova rivolta dei minori.
14 luglio: FORLÌ. Nuova rivolta dei minorenni. Un gruppo di compagni si è ribellato sfasciando suppellettili e costringendo le guardie ad abbandonare una parte dell’edificio. Il tema della lotta è ancora la fine della speculazione sul lavoro.
16 luglio: ROMA, CARCERE PER MINORI “ARISTIDE GABELLI”. Evasione in massa di dieci “corrigendi”.
20 luglio: MODENA, CARCERI DI SANTA EUFEMIA. Verso le diciannove e trenta i detenuti si barricano nelle celle minacciando di incendiarle se non vengono accolte le loro richieste, che riguardano le condizioni materiali di esistenza: vitto, igiene, colloqui, eccetera. La P.S. e i C.C. circondano l’edificio, mentre i carcerati in coro gridano “Polizia fascista!” “Sistema fascista!” Il sostituto procuratore della repubblica concede ai rivoltosi quello che chiedono, soprattutto riguardo al vitto, ma alcuni promotori della rivolta vengono trasferiti.
29 luglio: BARI, ISTITUTO DI RIEDUCAZIONE “FORNELLI”. Per protesta contro il trasferimento di alcuni ragazzi nel carcere giudiziario, i settanta “corrigendi” si impadroniscono dell’istituto (tre agenti di custodia all’ospedale), sfasciano porte e finestre, uffici e si scontrano per un’ora con la P.S. accorsa in forze a dare una mano ai secondini. Identificati e denunciati i “capi” del la rivolta: Domenico, Michele, Leonardo Anaclero, e Piero Navarra. Il Navarra ha quattordici anni! Alcuni giorni dopo un gruppo di quindici minori riusciva ad evadere dall’istituto.

TI DIRO’ UN SEGRETO di Louis Aragon

Ti dirò un gran segreto,
tu sei il tempo, il tempo è donna
ha bisogno d’esser corteggiato
ha bisogno che ci si segga ai suoi piedi
il tempo come una veste da sciogliere
il tempo come una chioma senza fine pettinata
uno specchio che il respiro appanna e spanna.
Il tempo sei tu che dormi nell’alba in cui mi sveglio
sei tu come un coltello che trafigga la mia gola
Oh, non posso dire questo tormento del tempo che non passa
questo tormento del tempo imprigionato
come il sangue nelle vene azzurre
Ben peggiore del desiderio interminabilmente insoddisfatto
di questa sete dell’occhio quando cammini nella stanza
e io capisco che non si deve rompere l’ incantesimo
Ben peggiore del sentirti estranea
sfuggente
la testa altrove e il cuore già in un altro secolo
Mio Dio come pesano le parole
è proprio questo il punto
amore mio oltre il piacere
amore mio fuori di portata
oggi fuori tiro
Tu che batti alla mia tempia orologio
Se tu non respiri sono io che soffoco
e sulla mia carne esita e si posa il tuo passo
Ti dirò un gran segreto
ogni parola
sulle mie labbra è una mendica che chiude
una miseria per le tue mani
una cosa che s’oscura sotto il tuo sguardo
ed è per questo io dico così spesso che ti amo
Colpa di un cristallo troppo chiaro di una frase che porteresti al collo
Non t’offendere per le mie parole banali.
è l’acqua pura che fa questo brusio spiacevole sul fuoco.
Ti dirò un gran segreto
Io non so parlare del tempo che ti somiglia
non so parlare di te
fingo soltanto
come quelli che da molto tempo sul marciapiede d’una stazione
agitano la mano dopo che i treni sono partiti
e il polso cede sotto il peso nuovo delle lacrime
Ti dirò un gran segreto
ho paura di te
paura di quel che t’accompagna la sera verso le finestre
dei gesti che fai delle parole che non si dicono
ho paura del tempo rapido e lento
ho paura di te
Ti dirò un gran segreto
chiudi le porte
è più facile morire che amare
per questo cerco di vivere
amor mio

La psicologia dell'appropriazione

Prima di parlare di nuovi tipi di convivenza tra individui che siano in grado di evitare le restrizioni e la sottile violenza esercitata dalla famiglia, bisogna chiarire bene un punto. Per quanto riguarda i paesi capitalistici del primo mondo si può parlare di comuni solo come situazioni prototipo che non potranno mai liberamente diffondersi e prosperare in un contesto prerivoluzionario. La psicologia dell'appropriazione, del trattare altri individui, in maggiore o minore misura, come merce che si può possedere o scambiare è oggettivamente così prevalente che i tentativi di trascenderla debbano essere per forza rari e isolati. E anche in questi pochi casi la trascendenza sarà più apparente che reale in quanto sembra esserci un inevitabile ricorso alla repressione (cercare di non pensare), alla rimozione, alla negazione (le manovre "inconsce" o preriflessive), e alle varie strategie di ritiro. Con questo vari sistemi possiamo evitare lo spettacolo del nostro possedere e "usare" altri individui: naturalmente di solito ciò avviene sotto forma di collusione, dal momento che questi sono già condizionati a venire usati e sfruttati nei rapporti.
In breve, quello che non vogliano non è masticare la nostra pagnotta, ma consumare il sistema così da riuscire infine ad assaggiare noi stessi.

giovedì 7 febbraio 2019

Le rivolte e le lotte nelle carceri italiane nel biennio 1971-72 (Capitolo I)

16 gennaio 1971: TORINO, LE NUOVE. Protesta e rivolta.
Centocinquanta detenuti si rifiutano di collaborare alle attività carcerarie. Le suppellettili del carcere vengono seriamente danneggiate, il sesto braccio è quasi distrutto e reso inabitabile.
17 gennaio: MONZA, CARCERE GIUDIZIARIO.
Sciopero dei cinquantanove detenuti da ogni attività del carcere per chiedere la riforma dei codici e del regolamento carcerario.
19 gennaio: TREVISO. Protesta di quaranta detenuti.
20 gennaio: MILANO, SAN VITTORE. Protesta contro il carcere preventivo. Sciopero della fame.
31 gennaio: GENOVA, MARASSI. Rivolta in tutto il carcere giudiziario. Incendi, scontri con la polizia all’interno, barricate. Si chiede il riscaldamento invernale e la riforma dei codici e del regolamento interno.
10 febbraio: TORINO, LE NUOVE. Una cinquantina di detenuti dichiarano di non volersi più presentare ai processi per protesta contro i codici fascisti.
Marzo: MILANO, SAN VITTORE. Una trentina di detenuti rifiutano di presentarsi ai processi.
17 marzo: NAPOLI, POGGIOREALE. Sciopero della fame contro la lentezza della procedura giudiziaria.
12-14 aprile: TORINO, LE NUOVE. Rivolta durissima e generale: Le Nuove sono distrutte. È una grande vittoria.
Ancora una volta i forcaioli, con la “Stampa” in testa, si scatenano contro “i delinquenti”, i teppisti vandali e invasati e così via. Le Nuove si vuotano e si riempiono, come sempre, le carceri di punizione, quelle in cui si resta per mesi legati alla “balilla”, al letto di contenzione, fino a che tutto il corpo diventa una piaga; o isolati, senza sigarette e caffè, in celle senza finestre, buie, anguste e irrespirabili.
Eppure, i detenuti che escono dalle Nuove per essere caricati e trasferiti non hanno il volto degli sconfitti. Al contrario, i loro saluti e i loro slogan mostrano la coscienza di chi si è proposto un fine, e l’ha raggiunto. La distruzione delle Nuove, di questo simbolo mostruoso dell’oppressione borghese, è stata voluta coscientemente. Da questo si misura la distanza enorme che separa la rivolta di due anni fa da quella del 12 aprile. Essa è stata il punto d’arrivo necessario di un processo cosciente. Basta ripercorrere la cronaca di pochi mesi. Rivolta a gennaio, sciopero della fame, pubblicazione di bollettini. Conquista di alcune rivendicazioni interne, impegno a continuare la lotta su quelle generali. Un mese dopo, decisione di non presentarsi più ai processi, accompagnata da una dichiarazione politica, mentre proseguono le assemblee interne. La direzione e il ministero scelgono la strada della repressione più dura e provocatoria: trasferimenti in massa dei “capi” – più di centocinquanta – denunce e punizioni, l’isolamento più rigido verso l’esterno, e la vigliacca decisione di annullare tutte le conquiste della lotta precedente. L’aria viene ridotta, il diritto a collegarsi e discutere viene abolito. Ci sono altre manifestazioni, e altri trasferimenti con accompagnamento di pestaggi. Ma non basta. Il grado di coscienza politica della massa dei detenuti si riesprime nella volontà di scendere in lotta il giorno dello sciopero generale nazionale, e in collegamento con la lotta di tutti i proletari. La direzione, informata dell’iniziativa, annuncia, tronfia e stupida com’è, di averla soffocata facendo trasferire un altro gruppetto di “agitatori”. Ed ecco, a pochi giorni di distanza, quando la repressione nella sua brutalità ha eliminato ogni altra possibilità di lotta, la rivolta dura, massiccia, determinata. “Con la nostra unità e la nostra forza – scrivono i detenuti – non ci sono muri che non possiamo abbattere”.
14 aprile: NOVARA, CARCERE GIUDIZIARIO. Rivolta e tentativo di evasione in massa dei trenta detenuti. La rivolta è iniziata per solidarietà coi rivoltosi di Torino.
15 aprile: LA SPEZIA. Sciopero e protesta di cinquanta trasferiti dalle Nuove.
15-17 aprile: ROMA, REGINA COELI. Sciopero della fame, per la riforma dell’ordinamento penitenziario.
15 aprile: BRESCIA, CANTON MOMBELLO. Sciopero della fame, sciopero delle lavorazioni.
15-20 aprile: MILANO, SAN VITTORE. Sciopero della fame, astensione dal lavoro, che si protraggono a singhiozzo per una settimana.
01 maggio: FORLÌ, CARCERE PER MINORI E GIUDIZIARIO. Proteste contro la carcerazione preventiva.


MILANO CALIBRO 9 di Fernando Di Leo

Milano, anni ’70. Un uomo, Ugo Piazza, esce dal carcere con il pretesto di ricostruirsi una vita e stare alla larga dalla vita criminale. Dopo una condanna di tre anni di carcere a causa di una rapina può finalmente tornare in libertà. Tuttavia all’uscita del carcere lo aspetta Rocco Musco, un altro criminale con cui aveva dei conti aperti da prima di entrare in carcere. Piazza, infatti, è l’unico corriere sopravvissuto a un passaggio di denaro finito male e Musco lo accusa di essersi appropriato di questi soldi. Piazza dovrà riuscire nel duplice intento di dimostrare la sua innocenza ai suoi ex compagni di banda e di convincere uno spietato commissario di polizia  delle sue buone intenzioni, nonostante quest’ultimo sia fermamente convinto che Piazza continuerà a commettere reati. Inoltre c’è Nelly Bordon, la fidanzata di Ugo Piazza e ballerina in un night club: Piazza vorrebbe coinvolgerla nel suo nuovo progetto di vita, fuori dalla vita criminale. La scena in cui Piazza vede Nelly ballare nel locale è una delle più famose del film e dell’intero filone: l’inquadratura segue i movimenti del corpo della ballerina, mettendo in risalto la bellezza della ragazza e ricreando un mondo criminale in cui violenza, potere e sesso sono strettamente collegati tra loro. (la lap dance di Barbara Bouchet è omaggiata da Quentin Tarantino in Grindhouse – A prova di morte).
Milano Calibro 9 è un film del 1972, diretto da Fernando Di Leo e ispirato al romanzo Stazione Centrale ammazzare subito di Giorgio Scerbanenco.
Questo film è una pietra miliare del genere poliziesco all’italiana, uno dei generi meglio sfruttati dai registi italiani. Come in ogni film riconducibile a questo filone, i protagonisti non rispecchiano i tipici archetipi del poliziesco più comune, ma sono presentati con profili psicologici propri e tra criminali e forze dell’ordine non vi è una netta contrapposizione. Ricopre un grande ruolo anche Milano, vera grande protagonista della pellicola. La città è dipinta come un luogo dove il crimine trova un terreno fertile. L’ascesa criminale di molti personaggi è strettamente collegata con l’ideologia sociale preponderante, quella della scalata sociale e dell’arrivismo. Criminali, gente comune, importanti industriali e grandi boss della malavita sono accomunati dal loro desiderio di cavalcare l’onda del boom economico e raggiungere un livello di benessere economico e sociale superiore a quello di partenza.
In Milano Calibro 9 si segnalano spunti di critica sociale come in questura, dove ad un commissario capo pragmatico ed attento si contrappone un vicecommissario, fresco di nomina, particolarmente istruito e progressista. In quel luogo,
e tra loro due, ci saranno discussioni che per i tempi sorprendono.Il commissario capo si distingue con affermazioni tipo: “I ricchi non danno fastidi!” “Ci sono ricchi e ricchi!” “La proprietà non è un furto!”, “Siamo sempre stati al servizio dei ricchi!”, “I ricchi hanno sempre ragione!”, “La polizia lotta contro gli studenti e contro gli operai!” e il vice-commissario che risponde con frasi come: “Lei è un poliziotto vecchio. I delinquenti sono un effetto, non una causa”, “Non ci sarebbe la delinquenza meridionale se i meridionali non facessero lavori mal pagati che non vuol fare nessuno".  Oppure si parlerà della condizione disumana dei detenuti nelle carceri (Ugo era uscito in seguito ad un'amnistia) e, cosa che costerà al vice il trasferimento in Basilicata, si parlerà di quanto tempo si perde sui pesci piccoli e non s'indaga sui movimenti dei capitali che proprio a Milano, grazie alla Borsa, trovano il terreno più fertile per riciclare i proventi illeciti..
Importante è la colonna sonora di Bacalov che si avvale dal gruppo napoletano rock-progressive degli Osanna. 




I nuovi luddisti e la tecnologia

I neo-luddisti, i demolitori non hanno una volontà sistematica di distruggere a prescindere dal fine di tale distruzione. Se essi attaccano le macchine non è per paura o perché non hanno nulla di meglio da fare, ma semplicemente perché le macchine che conoscono sono macchine inventate e prodotte nell’ambito di un preciso modello economico e di precise esigenze, quelle dell’impresa capitalistica. Una macchina usata al di fuori di una logica capitalistica potrebbe essere una macchina DIVERSA da quella usata da un modello produttivo capitalistico imperniato sul profitto.  È facile dedurre che la tecnologia riflette i rapporti di potere nella società, e questo logicamente significa che chi detiene  un maggior potere continua a determinare la forma e la direzione della tecnologia nel futuro prevedibile.
Oggi assistiamo alla maturazione finale di un sistema capitalistico ancora antisociale in cui libertà ed inventiva si sono cristallizzate in un monopolio del potere sancito dalla formula del progresso automatico.  Dire no all’innovazione tecnologica serve a due scopi insieme. Primo, fermare il progresso ci rammenta che siamo coinvolti in un movimento che non abbiamo avviato a cui non abbiamo mai deciso di partecipare. Secondo dire “no” non arresta la storia umana, quanto piuttosto mette in discussione l’attuale forma di sviluppo e cambia le regole del gioco presente.
I luddisti che si oppongono all’introduzione di nuove tecnologie, non sono contrari alla tecnologia  in se stessa, quanto piuttosto ai mutamenti sociali che la nuova tecnologia riflette e rafforza. Non hanno nulla contro le macchine ma neppure un rispetto ingiustificato per esse. Dovendo scegliere tra macchine e persone o, per essere più precisi, tra le macchine dei capitalisti e la propria vita, non è difficile decidere cosa viene al primo posto.