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giovedì 3 ottobre 2019

Contro il castigo

Il castigo non dissuade dal crimine, lo stimola. Dà inizio a un asta competitiva in cui il colpevole esercita sugli altri una giustizia che gli altri eserciteranno su di lui. Il criminale non agisce forse come un giudice implacabile? Condanna, punisce, grazia o elimina la sua vittima senza derogare alla legge di una giustizia universale. Il suo delitto lo impiega e sa che ne pagherà la tassa se viene arrestato.
Tale e la logica inevitabile degli scambi, essa si riproduce senza fine. Cionondimeno non è una legge umana, è soltanto la legge di una economia in cui tutto si paga. Condannare la violenza, lo stupro, l'attentato e fare appello a una legalità che uccide, imprigiona, stupra e tormenta, vuol dire entrare nella disumanità di un mercato chiamato giustizia, vuol dire rassegnarsi, con un segreto sentimento di vendetta, a comportarsi come un giudice ed un criminale.  Per quanto io possa trovarmi costretto a lavorare per sopravvivere e, nella stessa occorrenza, a reagire violentemente per difendermi - perché non è questione di tollerare alcuna minaccia -, non mi si farà assentire né alla virtù del lavoro né alla fondatezza del taglione. Una civiltà che ha la pretesa di creare la sua umanità si rinnega se non si adopera con ogni mezzo per spezzare il ciclo del crimine e del castigo, per farla finita con la giustizia. 
Seppure io posso essere trascinato, a certe ore del giorno e della notte, in un gioco le cui regole appartengono all'universalità mercantile, non ho scelto di entrarvi non mi preoccupo di vincere o perdere, non ho altra convenienza che uscirne. Colui che raccogliendo secondo il caso i piaceri, evita i sentieri battuto dell'autopunizione e dei suoi esorcismi, se ne frega di giudicare e di essere giudicato.

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